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mercoledì 28 ottobre 2015

Intervista a GIAMBATTISTA SCARFONE (Ottobre 2015)

SCRIVO E SONO LIBERO
In carcere si scopre scrittore e ottiene vari riconoscimenti.
Ma nessuno pubblica i suoi libri

Dal mensile IN ASPROMONTE di Ottobre 2015



A chi lo incontrava negli anni ’90, a Sant’Agata del Bianco, poteva capitare di ragionare con lui del capolavoro di Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine, o di sentirsi dire che la poesia di Kipling, If (Se..) rappresenta una guida pratica di vita. Dopodiché entrava nella sua auto, accendeva il sigaro, e partiva ascoltando Rimmel di De Gregori o Eskimo di Guccini


Adesso, da troppi anni, quel giovane, Giambattista Scarfone, è detenuto nel carcere di Spoleto. In questo luogo si è scoperto scrittore prolifico ed ha vinto pure qualche premio, tanto che la giornalista Giovanna Zucconi (che collabora con la Stampa e L’Espresso ed è nota al grande pubblico anche per aver affiancato Alessandro Baricco nella trasmissione televisiva “Pickwick”) attraverso un carteggio e qualche visita lo ha incoraggiato “a trovare un proprio stile e una propria forza espressiva”.
Giambattista Scarfone

Nessun editore, però, si è interessato della sua produzione letteraria. Noi lo abbiamo intervistato per capire come nasce uno “scrittore che non ti aspetti” e come i libri possono servire per vincere il peso di una realtà dolorosa.


Nel dicembre 2008 sul sito internet di Micheal Gregorio (firma che unisce due persone: Daniela De Gregorio e Michael G. Jacob, autori noir di fama internazionale) è stato scritto: “Il Premio Michael Gregorio è stato assegnato a Giambattista Scarfone per il suo racconto inedito, L’imprevisto. Si tratta di una storia senza compromessi di un crimine senza compromessi, scritto con grande abilità, chiarezza e un tocco di umorismo sarcastico. A nostro parere, merita sicuramente di essere pubblicato! “. Siamo nel 2015 e la tua opera rimane ancora inedita. Come mai?
Quando ho cominciato a scrivere non ipotizzavo di poter vincere premi o altro. Credo, come ogni autore, che la necessità che ho avvertito sia stata quella di raccontare ciò che sentivo dilagare dentro. Io ho solamente seguito (e seguo) questo impulso. Il luogo in cui mi trovo, se non danneggia, certamente non aiuta. Il pregiudizio fa il resto. Coloro che, come i Michael Gregorio, vogliono conoscere realtà anche lontane dal loro vivere, apprezzano e promuovono i vari percorsi di crescita interiore, proprio perché nati in un luogo estremo.
Personalmente, conosco poco il mondo dell’editoria ma, per quel che ho capito, troppo spesso rischiare di investire su un esordiente non è ritenuto opportuno. Forse anche per questo ci ritroviamo con delle “aberrazioni” sugli scaffali delle librerie, magari con testi di autori che hanno partecipato a dei talk show o a qualche programma demenziale. In concreto, si punta più sulla popolarità del “personaggio meteora”, sulla sua momentanea notorietà, che non sul valore dell’opera. Cioè la selezione avviene esattamente al contrario di come si dovrebbe fare. Il mio racconto è rimasto inedito? Mi gratifica molto averlo scritto.

Sempre nel 2008, quando hai vinto il Premio Trevi Noir, Daniela De Gregorio e Michael G. Jacob si sono recati direttamente in carcere, a Spoleto, per consegnarti l’importante riconoscimento (il video è stato proposto da Rai International). Cosa hai provato in quel momento?
In un luogo in cui tutto è precluso è difficile persino immaginare che domani sarà diverso dall’oggi, perché le radicate abitudini e le rigide regole interne presentano copie di giornate identiche, come in una sequenza senza fine. La constatazione di aver “scomodato” persone di cultura per venire a trovarmi mi ha regalato una grande gioia (c’era anche Sky) perché ho rotto gli schemi. Ho pensato al riscatto nonché al recupero del tempo perduto che, per quanto sprecato per futili cose, non è mai perduto davvero.

So che mentre conducevi una vita “diversa”, prima di finire in carcere, eri ugualmente attratto dai libri. In quel tempo, hai mai pensato di diventare uno scrittore?
Mai! Ho odiato i libri di scuola perché mi erano imposti e pur essendo stato un ottimo studente (prestavo molta attenzione alle spiegazioni dei professori) da adulto ho amato tutti i libri che ho potuto scegliere e leggere. Ho sempre avuto una tendenza per i romanzi. Forse perché mi incuriosiva l’idea di come facesse l’autore a costruire trame impossibili, a volte conseguenze di un’elaborazione nata per caso. Evidentemente tutto era scritto nel mio destino ma non lo sapevo.

Quanti libri hai scritto e a cosa stai lavorando in questo periodo?
Se ricordi bene, a dicembre del 2012, ti avevo spedito una lettera in cui ti dicevo di avere iniziato a scrivere il 32° libro (una saga familiare ambientata tra la Calabria e la Sicilia). Se hai conservato la lettera lo riscontrerai. Quel libro, pur essendo molto voluminoso, è diventato il primo di una tetralogia. Da una decina di giorni ho iniziato il quarto e ultimo romanzo che chiuderà la saga e la storia. Praticamente sto scrivendo il 35° libro.

Dove trovi gli spunti, i personaggi e le trame delle tue storie?
Non avrei mai creduto di poter scrivere un libro. Quando ci sono riuscito ho provato un’emozione fortissima perché, avendo letto molto, capivo l’importanza dell’impresa. Credo che gran merito vada alla memoria (ricordo anche ciò che non vorrei) e alle mie esperienze di vita. E’ come se avessi vissuto più esistenze e tutte hanno avuto la loro importanza. Non a caso chi legge le mie storie si accorge che descrivo contesti reali, proprio perché sono narrate dall’interno. Le trame dei miei libri mantengono tre fondamentali principi: Memoria, Amicizia e Tradimento. Di personaggi a cui assegnare un ruolo, poi, ne ho conosciuti così tanti che, nonostante la mia fertile fantasia, con ogni probabilità non riuscirò mai ad immortalarli tutti.

Nel film Bronx, del 1993, diretto e interpretato da Robert De Niro, il padre del giovane protagonista, che frequentava un potente boss (senza curarsi del divieto dei genitori), ammoniva il figlio dicendo: “Ricordati, la cosa più triste nella vita è il talento sprecato. Meditando sulla tua vita, sugli anni di reclusione e sul tuo talento di scrittore, ti riconosci in questo pensiero?
Credo che non esista un luogo come il carcere per prendere coscienza di quanto lacerante possa essere constatare di aver visto svanire persino l’illusione di avere delle capacità.  Il carcere è una fucina di reduci con esistenze fallimentari e vedere giovani pieni di vita spegnersi dietro inclinazioni moleste, proprio perché non hanno mai scoperto di avere un talento, è davvero un’umiliazione. Ma l’aspetto peggiore è che le potenzialità individuali perse per strada non hanno contribuito a migliorare il contesto collettivo, la società. E’ vero, il talento sprecato è quanto di peggio possa capitare. Io ho scoperto in carcere le mie qualità e ho cercato di trasformare il disagio in risorsa. Non fossi stato qui non avrei mai scritto nulla. Che il carcere mi abbia dato l’opportunità di riscattare il mio passato mi intristisce, sebbene sono consapevole che, se non qui, dove avrei potuto riflettere così a lungo e giungere a queste conclusioni?

Il libro per bambini scritto dai detenuti del carcere di Spoleto
Tu scrivi anche poesie, canzoni ed hai interpretato insieme ad altri detenuti il brano Give me another chance, 3° premio ex-aequo Raccorti Sociali IV edizione. Possiamo dire che la parola ha la forza di vincere, o perlomeno combattere, il dolore e la disperazione?
Le mie, più che poesie, le considero filastrocche perché, quando il caso mi ha spinto a scriverle, avevano uno scopo didattico, tanto che sono finite in un libro per bambini (Raccontami la vita) elaborato e illustrato da un gruppo di detenuti col pallino della creatività. Gli utili sono stati devoluti in beneficenza. Se non ricordo male credo di avere mandato uno a tuo figlio. La canzone da te citata, invece, era attinente alla nostra condizione (benché un’altra opportunità bisogna darla a tutti). L’anno scorso, poi, mi sono piazzato terzo al Premio Lunezia con una lirica su un tema tristemente attuale: la droga. La parola ha cambiato il mondo e chi confida nella sua forza non ricorrerà mai ad altri mezzi per redimere qualsiasi disputa. Anzi, farà di tutto affinché ognuno possa dire ciò che pensa. Il dolore è personale e intimo, ciò nonostante una parola detta al momento giusto può far nascere l’aspettativa che ci sia sempre una speranza. Uno scrittore vive di parole, pensa alle scene e, inevitabilmente, ai dialoghi. In carcere ci sono molte ragioni per cadere in sconforti di varia natura e, quando al limite della disperazione non resta altro che Dio, ci si affida alle parole per essere ascoltati, capiti. La parola apre nuovi orizzonti: più se ne conoscono e meno afflitta sarà la nostra esistenza.

Come immagini i giorni che seguiranno il tuo primo momento di libertà?
Ho saputo di gente che, libera dopo una lunga detenzione, giunta davanti alla porta è tornata indietro. Mi auguro non mi succeda nulla di simile. Scherzi a parte, dopo una parentesi così lunga non è facile fare previsioni. Ma per quanto immagini di non trovare il mondo che ho lasciato, sono sicuro che mi saprò adattare. I giorni dopo la scarcerazione saranno una costante emozione perché mi confronterò con una realtà nuova, sicuramente migliore di quella che mi lascio alle spalle. I miei nipoti, per esempio, non mi hanno mai visto fuori da queste mura, né io ho potuto mai fare una passeggiata con loro. Saranno queste prove a fare la differenza. Anche per loro. Non vedo altro futuro che non sia nei libri, quindi continuerò a scrivere e, chissà, magari riuscirò anche a pubblicare.


DOMENICO STRANIERI


                        





lunedì 5 ottobre 2015

IL VUOTO E LA SCOPERTA DEL TALENTO


Dal mensile IN ASPROMONTE di ottobre 2015


La copertina di IN ASPROMONTE
di ottobre 2015

Come si diventa “altro” rispetto a ciò che si è? O, ripensando ad un’espressione di Nietzsche, “come si diventa ciò che si è”? Sono interrogativi che hanno il profilo di dilemmi filosofici, eppure pongono delle domande alle quali, a volte, dobbiamo provare a rispondere. Quando Giambattista Scarfone mi ha spedito un suo libro, per sapere cosa ne pensavo, ho subito meditato sulla sua condizione: era sospeso dalla realtà, adesso, e doveva inventarsi un modo per non ammattire.

Che un detenuto intelligente come Giambattista avrebbe trovato “riparo” nei libri non era cosa difficile da capire. Però non immaginavo che quel primo testo che mi aveva mandato, e che lui aveva titolato “Il sole di Lara”, potesse avere la struttura, la forza ed il linguaggio di un libro vero. Ed invece era così.

Era l’inizio di una metamorfosi, di una nuova presa di coscienza. Scenari, luoghi e personaggi  venivano interiorizzati, come mai prima, e delineati su fogli di carta, nel vuoto di una cella. Scatta sempre  qualcosa di indefinibile che spinge un detenuto a scrivere per resistere al tempo, anziché  giocare a bocce, guardare la tv o a fare altro. 
Ovviamente, se analizziamo il passato, sono tante le grandi opere ideate nelle prigioni del mondo. Basti pensare ad Antonio Gramsci oppure ad Oscar Wilde, senza dimenticare che, nel prologo del Don Chisciotte, Cervantes spiegava che il suo capolavoro “fu generato in una carcere, ove ogni disagio domina, ed ove ha propria sede ogni sorta di malinconioso rumore”. Lo stesso Dostoevskij riconosceva di aver imparato molto dai lavori forzati. Ma stiamo parlando di personaggi che erano già dei letterati prima di essere reclusi. Più difficile, invece, è scoprirsi scrittori, in un preciso momento, senza mai avere elaborato un solo rigo in tutta la vita precedente.
Michael G. Jacob (Gregorio) e G. Scarfone
nella biblioteca del carcere di Spoleto (2008)

Come si evince dall’intervista a Giambattista Scarfone, che intanto è impegnato a scrivere il suo 35° libro, forse ognuno ha un talento che deve provare a trovare. A volte tale “dono” si svela nei momenti e nei luoghi più impensabili, ma c’è pure chi non riuscirà mai a trovarlo e questa “è la cosa più triste nella vita”.
Di certo, per un editore, è più facile pubblicare il libro di Fabrizio Corona (magari scritto da un’altra persona) che quello di un detenuto che attraverso un percorso complesso ma veramente formativo arriva a produrre un romanzo. E’ come se il vuoto di un luogo diventasse vuoto dell’anima, e allora ci vuole forza e abilità per insorgere, ripensarsi uomo, e affinare la tecnica giusta per riempire quel vuoto di parole. 

In Giambattista è stato come aprire una diga. Anni di vita accumulati, mai detti, si sono riversati nei suoi libri. E tutto questo, in un certo senso, diventa un lavoro. Perché bisogna sedersi ogni giorno e chinarsi su se stessi per entrare nelle storie. Non c’è un viaggio, un incontro, un evento che possa ispirare qualcosa. Il cammino è solo quello della mente.

Anche quando sono arrivati i riconoscimenti pubblici, come la vittoria del Trevi Noir, la rassegna libraria che nel 2008 anticipava Umbrialibri, Giambattista era assente. Tanto che la giornalista Giovanna Zucconi dovette esordire così: “questa premiazione ha la struttura di un noir, nel senso che c’è un premiato che non è qui”.
Non era stato possibile ritirare il riconoscimento, ma Giambattista Scarfone, da quel momento, divenne un uomo meno segregato, nel senso che riusciva a trovare nei libri la sua libertà. Malgrado gli mancasse tutto.I miei nipoti, per esempio, non mi hanno mai visto fuori da queste mura -  mi dice pensando al futuro - né io ho potuto mai fare una passeggiata con loro. Saranno queste prove a fare la differenza”.

Adesso, dopo tanti anni, la possibilità che un editore si occupi di lui gli appare un miraggio. Eppure Giambattista continua il suo lavoro, e scrive, con la fiducia incrollabile in ciò che fa.
La domanda iniziale, comunque, resta: quando un uomo diventa scrittore, è un uomo cambiato o è solamente diventato ciò che doveva essere?

DOMENICO STRANIERI