SE LA CALABRIA E' SEMPRE ASSOCIATA AD UN MALE...
Dal mensile IN ASPROMONTE di Aprile 2015
Dal mensile IN ASPROMONTE di Aprile 2015
Ci siamo
adattati a tutto, nei secoli, noi calabresi. Abbiamo saputo resistere all’incertezza di viaggi
oscuri con un eroico fatalismo, rassegnati ad essere il sud del sud, la
provincia della provincia, ignorata e offesa (vale a dire ingannata due volte). E nemmeno
adesso avvertiamo l’urgenza di una rinascita innanzi alla desolazione di uno
scenario perenne: qualche proclama, i Comuni sciolti per vere o presunte
contiguità mafiose (ma dipende dal ministro di turno, perché la mafia è tale in
base alle stagioni), un po’ di trepidazione durante le elezioni e poi tutto che
si ripresenta come prima.
Non è vittimismo, perché conosciamo anche i nostri
mali e sappiamo decifrare il nostro particolare senso di autodistruzione. Eppure la Calabria non è
una terra difficile solo
per colpa dei suoi abitanti. Gaetano
Salvemini spiegava bene come il Meridione non avesse debiti quando entrò a
far parte dell’Italia unificata, “e la unità del bilancio nazionale ebbe
l’effetto di obbligare i meridionali a pagare gl’interessi dei debiti fatti dai
settentrionali prima dell’unità e fatti quasi tutti per iscopi che coll’unità
nulla avevano da fare”. Dopo che ci presero ogni cosa, ed il nostro orizzonte
fu perfettamente vuoto, iniziarono a chiamarci “sudici” e “terroni” facendo
intendere che eravamo così (quasi) per una legge biologica.
Ora che tutta
Italia, economicamente, è più “sudicia” nonché “provincia di una cultura
egemone (americana)”, seguitiamo ad essere un territorio senza voce, che non
appare mai come una risorsa. La Calabria serve per distrarre l’attenzione da
altro, viene utilizzata al momento giusto e quasi sempre per
essere accostata, con estrema precisione, ad un male. D’altronde, in questi
giorni, Roberto Saviano, nella
trasmissione televisiva Servizio
Pubblico, ha osservato che: «Il problema Sud è già risolto con
l’emigrazione. Il Sud è ignorato dalla politica italiana. L’unica strada è
andare via». E chi rimane? Come dicevamo all’inizio, deve inevitabilmente
adattarsi a tutto. Basti pensare che il giornalista di Presa Diretta, Riccardo
Iacona, circa un mese fa, è apparso quasi come un salvatore giunto da un
altro mondo per essersi interessato ad alcune realtà positive della nostra
terra. Siamo così “addestrati” alla cattiva fama che ci è parso eccezionale,
irripetibile, fantastico, un programma che non ci screditasse.
Ma è stato
sufficiente qualche giorno e ci siamo richiusi come in una tana, da dove, per
farci sapere che esistiamo, veniamo continuamente messi in relazione con qualcosa
di negativo: Calabria = ‘Ndrangheta
o ‘Ndrangheta = Aspromonte. Ma prepariamoci, ora, ai
nuovi nessi: Libici = Aspromonte e Calabria = Isis. Nel marzo 2011, Danilo Narduzzi, capogruppo della Lega Nord nel consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia,
propose di “costruire dei campi di lavoro in Aspromonte” per far lavorare i
profughi libici. Narduzzi era ignaro del fatto che, se riempissimo davvero
l’Aspromonte di profughi, non sarà la nostra montagna a scongiurare le
migrazioni di massa. Si intuisce chiaramente da un semplice dato: nel 1950
l’Africa aveva 220 milioni di abitanti mentre nel 2050 si prevede che ne avrà 2
miliardi e 200 milioni. Impossibile, dunque, affrontare il domani con
l’inefficienza che ci contraddistingue, anche perché non possiamo scegliere di
metterci al riparo dai tempi che cambiano.
Ma guardiamo al presente. A gennaio 2015, mentre in
Italia si rafforzavano i controlli contro la minaccia terroristica,
i quotidiani Il Giornale e Libero giustificavano la scarsa
attenzione rivolta al sud Italia poiché il Meridione risulterebbe già al
sicuro. La motivazione è questa: «Nell’ipotetica mappa del rischio il Sud è
paradossalmente meno esposto: dove c’è qualcuno che sorveglia o addirittura
gestisce il territorio, mafia e malavita, le infiltrazioni sono molto più
difficili, a meno di alleanze per ora escluse se non impossibili». Già a
febbraio, però, il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, va oltre e, in un certo senso, smentisce
la tesi precedente sostenendo una nuova ipotesi: «Qualora l’Isis volesse
infiltrarsi sul territorio italiano, in Calabria potrebbe trovare appoggi
logistici dalla ‘ndrangheta in cambio di armi e droga». Precisa de Raho: «In un territorio così
capillarmente controllato dalla ‘ndrangheta il terrorismo può avere un appoggio
logistico, coperture in aziende agricole, in terreni di montagna o coperture
attraverso documenti falsificati in cambio di armi e droga».
A prescindere dal fatto
che per la ‘ndrangheta è più vantaggioso stringere alleanze con alcuni politici (anziché con personaggi barbuti che
sostengono che la terra è ferma ed il sole si muove), personalmente, come
fiancheggiatori dell’Isis sospetterei di più gli americani. Ma in questa
apparente perdita di senso, mentre assistiamo alla spettacolarità del terrore,
i nostri governanti restano avvitati su se stessi, incapaci di trovare la
chiave di lettura della situazione internazionale. Tuttavia, la Calabria,
quella sana, resiste da secoli agli arabi, ai longobardi, agli angioini, agli
aragonesi, ai Borboni, ai
piemontesi, alle mafie e a chi, oggi, ci toglie le strade, le ferrovie, gli
ospedali, i diritti ed il futuro. Ma non solo. Quando non ci raggirano con le parole, ci immaginano come un “angolo” dove
far arrivare profughi, rifiuti tossici o Commissari prefettizi.
E a subire
questa irragionevole immobilità sono sempre le persone oneste, quelle destinate
a non lasciare l’orma dei propri passi, mica la famigerata ‘ndrangheta. Essa
non è certo nascosta nelle grotte dell’Aspromonte, angosciata dalla
devastazione ambientale o dalla mancanza di lavoro, ma viaggia per fare
business a Milano, a Roma o nelle più eleganti metropoli del mondo. Ovviamente,
con ciò, non neghiamo la presenza di una pericolosa organizzazione criminale
nella nostra regione. Ma quest’unica rappresentazione di un territorio riduce
al limite la fatica di decifrarlo o, addirittura, potrebbe persino giustificare
il non-esserci dello Stato.
É una vecchia abitudine. Mario La Cava ricordava come pure “Mussolini venne la prima (e ultima)
volta in Calabria solo alla vigilia della dichiarazione di guerra. Prima non
aveva avuto tempo”. Al contrario, un’ipotesi negativa viene subito, più o meno
consapevolmente, cristallizzata a realtà: “Accordo
Isis-‘ndrangheta” oppure “l’Isis
potrebbe trovare appoggi logistici in Calabria”. Altro che “bad news is
good news” quando si parla della nostra regione! Per quanto riguarda,
invece, l’annunciato declino dell’Occidente (la cosiddetta “malattia della
civiltà”) siamo di fronte a una vicenda molto complessa. Deambuliamo da tempo
senza capire cosa diventeremo.
Non per niente Barbara W. Tuchman, nel suo libro La marcia della follia (Mondadori, 1985) scrive che “il politico
non è una creatura segnata dal fato, in balia dei capricci degli dèi di Omero.
Solo che riconoscere l’errore, chiudere con le perdite, o mutare rotta è, per
un governo, la più ripugnante delle opzioni. Per un capo di Stato, ammettere l’errore è
praticamente fuori discussione. La disgrazia dell’America
nel periodo del Vietnam fu di avere avuto presidenti ai quali mancava la
sicurezza necessaria al grande gesto del ritiro”. É troppo banale dire che la
storia si ripete. Ma è così.
DOMENICO STRANIERI