A Caraffa del Bianco l'incontro tra un medico ungherese e....
Dal mensile IN ASPROMONTE di settembre 2015
Il 15
marzo 1980, per qualche minuto, in Brasile, una donna pensò di intraprendere un
lungo viaggio verso l’Italia, precisamente in Calabria. Quel giorno era morto
suo padre, Andrea Fenyves, un medico che dal febbraio 1930, per alcuni anni, aveva
lavorato in un paese aspromontano, Caraffa del Bianco, dove, ancora oggi, viene
ricordato come “l’ungherese”.
Il
dott. Fenyves, difatti, era nato a Budapest il 13 giugno 1904, in una famiglia
di origini ebraiche. Per questa sua discendenza, pur essendosi convertito al
cattolicesimo, nel giugno del 1940 subì la triste disavventura di essere rinchiuso nel campo di concentramento di Notaresco
(TE). Era il n. 129 della lista degli ebrei “apolidi”. Venne catturato a Clana, vicino Fiume (oggi Rijeka, Croazia), dove si era trasferito perché in Calabria non percepiva
più lo stipendio (probabilmente a causa di un complotto ordito da alcuni
signorotti locali). Liberato nel gennaio del 1941, grazie all’intercessione di
Pio XII, Andrea Fenyves emigrò definitivamente in Brasile, a San Paolo.
Eppure, ai figli ed ai nipoti, non ha mai smesso di riportare aneddoti
riguardanti la sua esperienza in Calabria: dall’amicizia con Francesco Rossi,
di Sant’Agata del Bianco, alle chiacchierate con il podestà di Caraffa.
E tuttora molti anziani
hanno presente la figura del medico che, proprio a Caraffa, ricevette la cittadinanza onoraria italiana da parte del regime
fascista per aver guarito numerosi abitanti colpiti da una malattia sconosciuta
(la Leishmaniosi umana).
Il prof. Carlo Galletta, ad esempio, con lucidità e affetto, ne descrive
l’essenza umana e la specificità professionale, ricordando quando, da bravo
chimico, si recava dal farmacista Ruffo per elaborare le dosi esatte di qualche
medicinale.
Per tutti, quindi, il dott. Fenyves era l’uomo della provvidenza, capace di
curare ferite e malattie, sempre gentile e disponibile, così simile, in un
certo senso, al Carlo Levi di Cristo si è
fermato ad Eboli (anch’egli arrivato da lontano nel cuore di un’isolata
società contadina).
Pure i
figli del medico ungherese, Magda e Alessandro, nasceranno a Caraffa del
Bianco, laddove, nel 2013, dopo 80 anni, Magda ritornerà per cercare le tracce
del suo passato. Un anno dopo (luglio 2014) visiterà la Calabria anche la
figlia di Magda, Inês, quasi a
testimonianza del rapporto profondo che lega questa famiglia alla nostra terra. Sono
tante, difatti, le storie narrate dal nonno a Inês. Tra queste, quella del suo arrivo nella casa di Caraffa, di
fianco la chiesa di San Giuseppe.
Il
dott. Fenyves raccontava di essere entrato nella camera, che poi sarebbe
diventato il suo studio, e di aver trovato una persona piegata sulla scrivania,
con la mani poggiate ai lati della testa come per evitare che cadesse.
Dopo
la sorpresa iniziale, l’ignoto ospite disse al medico di non temere: egli frequentava
abitualmente quella casa prima del suo arrivo, comunque, ora, sarebbe andato
via.
La circostanza,
quasi da situazione teatrale, incuriosì il dott. Fenyves che iniziò a chiedere alla
gente chi fosse quel bizzarro personaggio.
![]() |
Magda Fenyves nella "sua" casa di Caraffa del Bianco |
Mai,
in paese, si era parlato con tanta serenità di uno spettro, come se fosse
qualcosa di normale, una certezza collettiva, un’altra condizione dell’esistere.
Tuttavia
c’era una verità, un segreto, che bloccava ancora il cav. Pietro Paolo
Mezzatesta sulla terra, tra i viventi, e che lo faceva penare come alcune anime
descritte da Dante.
Un
segreto che, una notte di pioggia, il fantasma svelò solamente al dott. Fenyves
prima di congedarsi da lui e scomparire per sempre.
Non sappiamo se il medico ungherese abbia mai rivelato a
qualcuno le parole di quell’ombra amica (di cui gli anziani rammentano la
leggenda, coscienti che, per qualche motivo, adesso non c’è più).
Ma, di sicuro, Andrea Fenyves è riuscito a tratteggiare nella
mente dei suoi familiari le immagini di un luogo ove spesso agiscono forze più
grandi e forti degli uomini; senza dimenticare quella geografia poetica e quel dolore
umano che, prima di lasciare Caraffa, egli seppe caricare nel suo cuore e portare
con sé nel lungo viaggio della vita.
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