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giovedì 31 dicembre 2015

"Caro Domenico...". LA LETTERA DI MICHAEL G. JACOB


Dal mensile IN ASPROMONTE di Dicembre 2015

Dopo la nostra intervista a Giambattista Scarfone, scrittore detenuto nel carcere di Spoleto, a cui abbiamo dedicato anche la copertina di ottobre 2015, è nato uno scambio epistolare tra Domenico Stranieri (autore dell’intervista) e Michael G. Jacob (che con Daniela Gregorio scrive romanzi noir di fama internazionale). Di seguito, l’ultima lettera arrivata in Calabria, poiché è una bella testimonianza di cultura e sensibilità.


Caro Domenico,
Grazie per la tua lettera. Ci devi scusare, ma stavamo in Inghilterra e l’abbiamo letta solo ieri. Nel frattempo ci è arrivata anche la copia del giornale In Aspromonte mandato da Giambattista.
Adesso, ti raccontiamo un po’ di cose che abbiamo imparato come due scrittori che hanno avuto il privilegio (vero) di entrare in un carcere di massima sicurezza.

Avevamo sentito da due fonti diverse di Giambattista Scarfone prima di incontrarlo.
La prima, Giovanna Zucconi, allora giornalista di La Stampa, venuta ad intervistarci nel 2008. Giovanna ci parlava di una persona nel carcere di massima sicurezza di Maiano di Spoleto che l’aveva contattata chiedendole consigli riguardo ai suoi romanzi inediti. Siccome noi abitiamo a Spoleto, la sua ‘ruga’ e la nostra ‘ruga’ stavano molto vicine.
Poi, poco tempo dopo, ci ha telefonato un insegnante che lavora al carcere, Luciana , dicendo che alcuni dei suoi allievi avevano letto i nostri romanzi, e ci ha invitato a Maiano per parlarne con loro. ‘Sarà un’esperienza,’ diceva Luciana, e non aveva torto. Così ci siamo trovati di fronte ad un gruppo di dieci o dodici persone nella biblioteca della prigione.

G.Scarfone con Michael G. Jacob
nella biblioteca del carcere di Spoleto
Fra loro c’era Giambattista Scarfone.
Siamo stati calorosamente ricevuti, e l’incontro è stato un vero piacere per noi, e, speriamo, per loro. 
In effetti, è stato solo il primo di una serie di incontri con i ‘ragazzi’ di Maiano. La loro curiosità cominciava con i nostri libri, ma non finiva lì. Abbiamo scoperto che molti di loro scrivevano. Alcuni per motivi di studio, ma altri vi si erano applicati con delle ambizioni ben oltre il semplice desiderio di tenere un diario o raccontare storie delle loro esistenza. Alcuni avevano pubblicato libri di fiabe e racconti insieme ai loro insegnanti. Giambattista Scarfone era uno di loro ma aveva una marcia in più. Aveva già scritto otto o nove romanzi.

Chi non ha mai provato non può capire il lavoro che richiede la scrittura di un romanzo di tre, quattro, o cinquecento pagine. Richiede un’immaginazione, certo, una capacità di creare un mondo popolato di personaggi dove succedono cose non banali, ma anche la costanza e il lavoro di molti mesi, o anche anni, davanti ad uno schermo, o una pagina bianca. Immaginate poi a scrivere 24,000 pagine come ha fatto Giambattista, otto romanzi lunghi, a coprire tutti quei fogli bianchi con oltre due milioni quattrocentomila parole! È un impresa immensa. Eppure, ogni scrittore che ha avuto la fortuna di essere finalmente pubblicato ha dovuto fare un apprendistato simile. Ha lavorato da solo per anni e anni, imparando i ‘trucchi del mestiere’, cioè come costruire una storia, come riempirla con personaggi che sembrano veri, come scrivere i dialoghi, come creare la trama e mantenere lo suspense, come portare il lettore da un inizio intrigante fino ad una conclusione dove i nodi si sciolgono e la fine sembra emergere con naturalezza da quello che l’ha preceduto.

E tutto questo senza nessuna garanzia che il ‘miracolo’ succederà.
Tutti noi che scriviamo crediamo nel ‘miracolo’ della pubblicazione. Crediamo che prima o poi qualcuno riconoscerà il valore di quello che ci sentiamo spinti a fare. Quante volte ci siamo chiesti se valesse la pena o no. Nonostante le lettere di rifiuto, gli editori che ti respingono con un gentile ‘mi dispiace ma...’ o un silenzio ancora più devastante tanto più i tempi si allungano. Ma il vero scrittore fa una cosa ogni giorno della sua vita: si mette giù a scrivere. E così fa Giambattista Scarfone.

I Michael Gregorio, firma che unisce
Daniela De Gregorio e Michael G. Jacob,
autori noir di fama internazionale
Noi abbiamo avuto la fortuna di incontrare Giambattista, Carmelo, Francesco e tanti altri a Maiano. Abbiamo avuto l’opportunità di parlare con loro di racconti e romanzi, i nostri, i loro, e i lavori di molti altri scrittori. Li abbiamo consigliati, gli abbiamo dato i ‘compiti’ che poi abbiamo letto con attenzione, suggerendo come ampliare o intensificare quello che avevano da raccontare. 

Abbiamo anche portato Giovanna Zucconi a Maiano con noi un giorno, e Scarfone ha avuto l’opportunità di parlare con lei. Quando RAI 24 ha voluto seguirci per un giorno intero, mandando in seguito in onda un documentario, abbiamo portato i giornalisti e i cameraman dentro le mura di Maiano. 

Abbiamo anche premiato Scarfone al festival di Trevi Noir come miglior scrittore non pubblicato. Cioè, abbiamo fatto quel poco che potevamo fare.
Quello che racconta Giambattista e gli altri ragazzi merita attenzione. Richiede lavoro, impegno. Richiede anche ‘esperienza di vita’, e questa l’hanno in abbondanza. L’altra grande cosa che ha lo scrittore incarcerato è tempo a disposizione. Sembra uno scherzo, ma non lo è. Scrivere un libro richiede tempo per pensare, leggere e imparare. Tempo per scrivere, correggere e riscrivere. Molti dei detenuti partecipano a corsi accademici cercando un modo per impiegare il loro tempo. Tanti ormai si laureano. Riempiono le lacune lasciate dalla scuola, e poi affrontano studi che forse non avrebbero mai preso in considerazione. Si dice che la recidività criminale ammonta a quasi 60%, mentre la percentuale che tornano in galera si abbassa a sotto il 4% fra quelli che riescono ad ottenere una laurea.
Questo è certamente un bene. Ma se invece di studiare, uno volesse scrivere un romanzo? Non è ugualmente impegnativo, ugualmente riabilitativo? Non si impara di sé e degli altri? E poi, ad opera compiuta, invece di un solo di foglio di carta, si hanno in mano cento, mille pagine dattiloscritte.

L'ultimo libro firmato
MICHAEL GREGORIO
Noi crediamo che attività del genere dovrebbero essere premiate. Uno scrittore che si afferma pubblicando non ricade nelle vecchie abitudini che lo hanno portato a passare una parte della sua vita dietro le sbarre. Per aiutarlo, c’è bisogno di comprensione e dedizione. Le università entrano ormai da anni dentro i centri di reclusione. Ma quanti scrittore italiani hanno ottenuto il permesso di lavorare liberamente su tematiche qualsiasi con dei detenuti? Quanti editori hanno potuto spiegare ad un gruppo di scrittori-prigionieri i segreti di un mestiere riservatissimo che vorrebbero imparare? E poi, quante case editrici hanno mai varcato i cancelli delle prigioni italiane spiegando quello che cercano, quello che vogliono, quello che pubblicano?
Giambattista Scarfone sta facendo il suo lavoro: scrive.
Noi facciamo quello che possiamo: consigli e scambi di opinioni.
Quello che manca è l’impegno, da parte delle autorità, di aprire le porte all’esterno e portare dentro persone che possano aggiungere le loro conoscenze professionali del mondo dei libri. Senza editori che leggono i lavori di scrittori come Scarfone, e case editrici che la pubblicano, si rischia la perdita di un punto di vista del tutto originale.
Il caso dello scrittore statunitense Edward (Ed) Bunker è illuminante.
Bunker è entrato nel mondo della criminalità fin da ragazzo ed è entrato e uscito varie volte di galera, accusato di aver commesso crimini come la rapina a mano armata. In prigione ha imparato a scrivere ed è diventato uno dei maggiori autori americani di gialli e noir. Non è mai rientrato in prigione. Questo è un fatto. Scrittori come Giambattista Scarfone possono diventare gli Ed Bunker italiani, ma hanno bisogno del ‘miracolo.’ Cioè, un editore che creda in lui affinché le sue storie possano far appello ad un pubblico di lettori che vuole entrare nel mondo della sua fantasia.
Speriamo che il miracolo avvenga.
Gambattista lo merita.  
Mike





sabato 21 novembre 2015

LA REGALÍA DI EPOCA MODERNA

Dal mensile IN ASPROMONTE di Novembre 2015


Il Sud ha fame. E durante le carestie si ruba. Nella Locride, che con l’istituzione della Città Metropolitana diverrà provincia della provincia, si depreda tutto: i bergamotti, l’uva di interi vigneti, gli animali.
Eppure la fame non è una giustificazione. Anche perché alcuni “saccheggi” ricordano quelli dei Goti.
Ed è in quest’ambiente che, per qualche tempo, vivono molti giovani disoccupati, prima di andare via e rinnovare l’esodo dei nostri conterranei.




Il resto è un eterno ritorno di discorsi, analisi, discussioni a cui assistiamo da decenni. 

Pure Saverio Strati, che non riusciva più a pubblicare i suoi libri perché ritenuti “superati”, è modernissimo. Le angosce di chi doveva partire ieri ed aveva “due cuori” (uno che diceva “vai!” e l’altro “che vai a fare?”) sono le stesse angosce di oggi.

E poi c’è la regalía di epoca moderna. Ovvero la consuetudine di svolgere un’attività gratuitamente per un “signorotto locale” sperando che questi in futuro si ricordi del lavoro fatto o, semplicemente, per non inimicarselo rifiutando di “essere a disposizione”.
Succede a tanti. La differenza con il passato è quella che non si va più nei campi a zappare, come i personaggi di Strati, ma il significato è lo stesso.
L’autore di Sant’Agata del Bianco scrisse il racconto La  regalía nel 1953 e lo dedicò “Alla memoria di Elio Vittorini”. Protagonisti: un padre con una gamba rotta, impossibilitato a muoversi e a lavorare, ed un figlio che mal sopportava di avere “la camicia lorda di terra e di sudore”, senza paga, per ingraziarsi il potente “cavaliere” di turno.

Per le sue idee, il padre considerava il giovane uno sprovveduto, un sognatore che non aveva percezione di come andava il mondo: “Tu parli col cuore di chi non ha responsabilità. Se non vai, che puoi fare più in paese? Che, forse puoi andare a chiedergli olive? E, se lui non ti dà le olive, con che ti condisci le mani? E un pugno di grano dove lo semini? Che, forse hai un pezzo di terra da zappare? Non vedi che noi non abbiamo neppure dove scavarci la fossa? Ragioni con la testa o con i piedi?”. Ma il figlio ribatteva: “Sentitevi onorato di andare a fare il servo (..) E’ la più grossa fesseria, questa della regalía. Noi dobbiamo regalare, noi che siamo poveri? E lui cosa ci regala?”.

Insomma, da sempre, dove non c’è lavoro non può esserci libertà. Ma non solo. Ad aggravare il quadro dello sfruttamento, oggi, ci sono i salari minimi, che non si possono contestare perché “se non ti vanno bene 400 euro al mese c’è la fila di gente che aspetta di occupare il tuo posto”. O questo o niente, bentornato Marx!
Tuttavia, sempre in Strati, è evidente che : “Se la gente non va a raccogliergli le olive, lui (il padrone) non manda sua moglie a stare a culo a ponte sotto gli olivi; né va lui a dare tre palmi con la zappa, nei campi e nelle vigne. Lui è, perché lo facciamo noi essere”.

Ecco, i potenti, gli sfruttatori, i mafiosi “sono” perché li facciamo noi essere. E con il sudore dei poveri saranno sempre loro i protagonisti della storia. Quella storia che non ricorderà mai i nomi dei nostri nonni e dei nostri padri, le loro fatiche.
E non rammenterà nemmeno le nostre “prove abortite di esistenza”. Poiché siamo figli di una gracile mitologia contadina, di un fatalismo che ci esorta ad accontentarci di poco. Quasi che avessimo ancora addosso gli “spiriti della distruzione” ed i travestimenti delle antiche tragedie greche.



ARTICOLI CORRELATI: I POETI CONTADINI DI SANT'AGATA

                                                QUALE SOCIALISMO?

mercoledì 28 ottobre 2015

Intervista a GIAMBATTISTA SCARFONE (Ottobre 2015)

SCRIVO E SONO LIBERO
In carcere si scopre scrittore e ottiene vari riconoscimenti.
Ma nessuno pubblica i suoi libri

Dal mensile IN ASPROMONTE di Ottobre 2015



A chi lo incontrava negli anni ’90, a Sant’Agata del Bianco, poteva capitare di ragionare con lui del capolavoro di Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine, o di sentirsi dire che la poesia di Kipling, If (Se..) rappresenta una guida pratica di vita. Dopodiché entrava nella sua auto, accendeva il sigaro, e partiva ascoltando Rimmel di De Gregori o Eskimo di Guccini


Adesso, da troppi anni, quel giovane, Giambattista Scarfone, è detenuto nel carcere di Spoleto. In questo luogo si è scoperto scrittore prolifico ed ha vinto pure qualche premio, tanto che la giornalista Giovanna Zucconi (che collabora con la Stampa e L’Espresso ed è nota al grande pubblico anche per aver affiancato Alessandro Baricco nella trasmissione televisiva “Pickwick”) attraverso un carteggio e qualche visita lo ha incoraggiato “a trovare un proprio stile e una propria forza espressiva”.
Giambattista Scarfone

Nessun editore, però, si è interessato della sua produzione letteraria. Noi lo abbiamo intervistato per capire come nasce uno “scrittore che non ti aspetti” e come i libri possono servire per vincere il peso di una realtà dolorosa.


Nel dicembre 2008 sul sito internet di Micheal Gregorio (firma che unisce due persone: Daniela De Gregorio e Michael G. Jacob, autori noir di fama internazionale) è stato scritto: “Il Premio Michael Gregorio è stato assegnato a Giambattista Scarfone per il suo racconto inedito, L’imprevisto. Si tratta di una storia senza compromessi di un crimine senza compromessi, scritto con grande abilità, chiarezza e un tocco di umorismo sarcastico. A nostro parere, merita sicuramente di essere pubblicato! “. Siamo nel 2015 e la tua opera rimane ancora inedita. Come mai?
Quando ho cominciato a scrivere non ipotizzavo di poter vincere premi o altro. Credo, come ogni autore, che la necessità che ho avvertito sia stata quella di raccontare ciò che sentivo dilagare dentro. Io ho solamente seguito (e seguo) questo impulso. Il luogo in cui mi trovo, se non danneggia, certamente non aiuta. Il pregiudizio fa il resto. Coloro che, come i Michael Gregorio, vogliono conoscere realtà anche lontane dal loro vivere, apprezzano e promuovono i vari percorsi di crescita interiore, proprio perché nati in un luogo estremo.
Personalmente, conosco poco il mondo dell’editoria ma, per quel che ho capito, troppo spesso rischiare di investire su un esordiente non è ritenuto opportuno. Forse anche per questo ci ritroviamo con delle “aberrazioni” sugli scaffali delle librerie, magari con testi di autori che hanno partecipato a dei talk show o a qualche programma demenziale. In concreto, si punta più sulla popolarità del “personaggio meteora”, sulla sua momentanea notorietà, che non sul valore dell’opera. Cioè la selezione avviene esattamente al contrario di come si dovrebbe fare. Il mio racconto è rimasto inedito? Mi gratifica molto averlo scritto.

Sempre nel 2008, quando hai vinto il Premio Trevi Noir, Daniela De Gregorio e Michael G. Jacob si sono recati direttamente in carcere, a Spoleto, per consegnarti l’importante riconoscimento (il video è stato proposto da Rai International). Cosa hai provato in quel momento?
In un luogo in cui tutto è precluso è difficile persino immaginare che domani sarà diverso dall’oggi, perché le radicate abitudini e le rigide regole interne presentano copie di giornate identiche, come in una sequenza senza fine. La constatazione di aver “scomodato” persone di cultura per venire a trovarmi mi ha regalato una grande gioia (c’era anche Sky) perché ho rotto gli schemi. Ho pensato al riscatto nonché al recupero del tempo perduto che, per quanto sprecato per futili cose, non è mai perduto davvero.

So che mentre conducevi una vita “diversa”, prima di finire in carcere, eri ugualmente attratto dai libri. In quel tempo, hai mai pensato di diventare uno scrittore?
Mai! Ho odiato i libri di scuola perché mi erano imposti e pur essendo stato un ottimo studente (prestavo molta attenzione alle spiegazioni dei professori) da adulto ho amato tutti i libri che ho potuto scegliere e leggere. Ho sempre avuto una tendenza per i romanzi. Forse perché mi incuriosiva l’idea di come facesse l’autore a costruire trame impossibili, a volte conseguenze di un’elaborazione nata per caso. Evidentemente tutto era scritto nel mio destino ma non lo sapevo.

Quanti libri hai scritto e a cosa stai lavorando in questo periodo?
Se ricordi bene, a dicembre del 2012, ti avevo spedito una lettera in cui ti dicevo di avere iniziato a scrivere il 32° libro (una saga familiare ambientata tra la Calabria e la Sicilia). Se hai conservato la lettera lo riscontrerai. Quel libro, pur essendo molto voluminoso, è diventato il primo di una tetralogia. Da una decina di giorni ho iniziato il quarto e ultimo romanzo che chiuderà la saga e la storia. Praticamente sto scrivendo il 35° libro.

Dove trovi gli spunti, i personaggi e le trame delle tue storie?
Non avrei mai creduto di poter scrivere un libro. Quando ci sono riuscito ho provato un’emozione fortissima perché, avendo letto molto, capivo l’importanza dell’impresa. Credo che gran merito vada alla memoria (ricordo anche ciò che non vorrei) e alle mie esperienze di vita. E’ come se avessi vissuto più esistenze e tutte hanno avuto la loro importanza. Non a caso chi legge le mie storie si accorge che descrivo contesti reali, proprio perché sono narrate dall’interno. Le trame dei miei libri mantengono tre fondamentali principi: Memoria, Amicizia e Tradimento. Di personaggi a cui assegnare un ruolo, poi, ne ho conosciuti così tanti che, nonostante la mia fertile fantasia, con ogni probabilità non riuscirò mai ad immortalarli tutti.

Nel film Bronx, del 1993, diretto e interpretato da Robert De Niro, il padre del giovane protagonista, che frequentava un potente boss (senza curarsi del divieto dei genitori), ammoniva il figlio dicendo: “Ricordati, la cosa più triste nella vita è il talento sprecato. Meditando sulla tua vita, sugli anni di reclusione e sul tuo talento di scrittore, ti riconosci in questo pensiero?
Credo che non esista un luogo come il carcere per prendere coscienza di quanto lacerante possa essere constatare di aver visto svanire persino l’illusione di avere delle capacità.  Il carcere è una fucina di reduci con esistenze fallimentari e vedere giovani pieni di vita spegnersi dietro inclinazioni moleste, proprio perché non hanno mai scoperto di avere un talento, è davvero un’umiliazione. Ma l’aspetto peggiore è che le potenzialità individuali perse per strada non hanno contribuito a migliorare il contesto collettivo, la società. E’ vero, il talento sprecato è quanto di peggio possa capitare. Io ho scoperto in carcere le mie qualità e ho cercato di trasformare il disagio in risorsa. Non fossi stato qui non avrei mai scritto nulla. Che il carcere mi abbia dato l’opportunità di riscattare il mio passato mi intristisce, sebbene sono consapevole che, se non qui, dove avrei potuto riflettere così a lungo e giungere a queste conclusioni?

Il libro per bambini scritto dai detenuti del carcere di Spoleto
Tu scrivi anche poesie, canzoni ed hai interpretato insieme ad altri detenuti il brano Give me another chance, 3° premio ex-aequo Raccorti Sociali IV edizione. Possiamo dire che la parola ha la forza di vincere, o perlomeno combattere, il dolore e la disperazione?
Le mie, più che poesie, le considero filastrocche perché, quando il caso mi ha spinto a scriverle, avevano uno scopo didattico, tanto che sono finite in un libro per bambini (Raccontami la vita) elaborato e illustrato da un gruppo di detenuti col pallino della creatività. Gli utili sono stati devoluti in beneficenza. Se non ricordo male credo di avere mandato uno a tuo figlio. La canzone da te citata, invece, era attinente alla nostra condizione (benché un’altra opportunità bisogna darla a tutti). L’anno scorso, poi, mi sono piazzato terzo al Premio Lunezia con una lirica su un tema tristemente attuale: la droga. La parola ha cambiato il mondo e chi confida nella sua forza non ricorrerà mai ad altri mezzi per redimere qualsiasi disputa. Anzi, farà di tutto affinché ognuno possa dire ciò che pensa. Il dolore è personale e intimo, ciò nonostante una parola detta al momento giusto può far nascere l’aspettativa che ci sia sempre una speranza. Uno scrittore vive di parole, pensa alle scene e, inevitabilmente, ai dialoghi. In carcere ci sono molte ragioni per cadere in sconforti di varia natura e, quando al limite della disperazione non resta altro che Dio, ci si affida alle parole per essere ascoltati, capiti. La parola apre nuovi orizzonti: più se ne conoscono e meno afflitta sarà la nostra esistenza.

Come immagini i giorni che seguiranno il tuo primo momento di libertà?
Ho saputo di gente che, libera dopo una lunga detenzione, giunta davanti alla porta è tornata indietro. Mi auguro non mi succeda nulla di simile. Scherzi a parte, dopo una parentesi così lunga non è facile fare previsioni. Ma per quanto immagini di non trovare il mondo che ho lasciato, sono sicuro che mi saprò adattare. I giorni dopo la scarcerazione saranno una costante emozione perché mi confronterò con una realtà nuova, sicuramente migliore di quella che mi lascio alle spalle. I miei nipoti, per esempio, non mi hanno mai visto fuori da queste mura, né io ho potuto mai fare una passeggiata con loro. Saranno queste prove a fare la differenza. Anche per loro. Non vedo altro futuro che non sia nei libri, quindi continuerò a scrivere e, chissà, magari riuscirò anche a pubblicare.


DOMENICO STRANIERI


                        





lunedì 5 ottobre 2015

IL VUOTO E LA SCOPERTA DEL TALENTO


Dal mensile IN ASPROMONTE di ottobre 2015


La copertina di IN ASPROMONTE
di ottobre 2015

Come si diventa “altro” rispetto a ciò che si è? O, ripensando ad un’espressione di Nietzsche, “come si diventa ciò che si è”? Sono interrogativi che hanno il profilo di dilemmi filosofici, eppure pongono delle domande alle quali, a volte, dobbiamo provare a rispondere. Quando Giambattista Scarfone mi ha spedito un suo libro, per sapere cosa ne pensavo, ho subito meditato sulla sua condizione: era sospeso dalla realtà, adesso, e doveva inventarsi un modo per non ammattire.

Che un detenuto intelligente come Giambattista avrebbe trovato “riparo” nei libri non era cosa difficile da capire. Però non immaginavo che quel primo testo che mi aveva mandato, e che lui aveva titolato “Il sole di Lara”, potesse avere la struttura, la forza ed il linguaggio di un libro vero. Ed invece era così.

Era l’inizio di una metamorfosi, di una nuova presa di coscienza. Scenari, luoghi e personaggi  venivano interiorizzati, come mai prima, e delineati su fogli di carta, nel vuoto di una cella. Scatta sempre  qualcosa di indefinibile che spinge un detenuto a scrivere per resistere al tempo, anziché  giocare a bocce, guardare la tv o a fare altro. 
Ovviamente, se analizziamo il passato, sono tante le grandi opere ideate nelle prigioni del mondo. Basti pensare ad Antonio Gramsci oppure ad Oscar Wilde, senza dimenticare che, nel prologo del Don Chisciotte, Cervantes spiegava che il suo capolavoro “fu generato in una carcere, ove ogni disagio domina, ed ove ha propria sede ogni sorta di malinconioso rumore”. Lo stesso Dostoevskij riconosceva di aver imparato molto dai lavori forzati. Ma stiamo parlando di personaggi che erano già dei letterati prima di essere reclusi. Più difficile, invece, è scoprirsi scrittori, in un preciso momento, senza mai avere elaborato un solo rigo in tutta la vita precedente.
Michael G. Jacob (Gregorio) e G. Scarfone
nella biblioteca del carcere di Spoleto (2008)

Come si evince dall’intervista a Giambattista Scarfone, che intanto è impegnato a scrivere il suo 35° libro, forse ognuno ha un talento che deve provare a trovare. A volte tale “dono” si svela nei momenti e nei luoghi più impensabili, ma c’è pure chi non riuscirà mai a trovarlo e questa “è la cosa più triste nella vita”.
Di certo, per un editore, è più facile pubblicare il libro di Fabrizio Corona (magari scritto da un’altra persona) che quello di un detenuto che attraverso un percorso complesso ma veramente formativo arriva a produrre un romanzo. E’ come se il vuoto di un luogo diventasse vuoto dell’anima, e allora ci vuole forza e abilità per insorgere, ripensarsi uomo, e affinare la tecnica giusta per riempire quel vuoto di parole. 

In Giambattista è stato come aprire una diga. Anni di vita accumulati, mai detti, si sono riversati nei suoi libri. E tutto questo, in un certo senso, diventa un lavoro. Perché bisogna sedersi ogni giorno e chinarsi su se stessi per entrare nelle storie. Non c’è un viaggio, un incontro, un evento che possa ispirare qualcosa. Il cammino è solo quello della mente.

Anche quando sono arrivati i riconoscimenti pubblici, come la vittoria del Trevi Noir, la rassegna libraria che nel 2008 anticipava Umbrialibri, Giambattista era assente. Tanto che la giornalista Giovanna Zucconi dovette esordire così: “questa premiazione ha la struttura di un noir, nel senso che c’è un premiato che non è qui”.
Non era stato possibile ritirare il riconoscimento, ma Giambattista Scarfone, da quel momento, divenne un uomo meno segregato, nel senso che riusciva a trovare nei libri la sua libertà. Malgrado gli mancasse tutto.I miei nipoti, per esempio, non mi hanno mai visto fuori da queste mura -  mi dice pensando al futuro - né io ho potuto mai fare una passeggiata con loro. Saranno queste prove a fare la differenza”.

Adesso, dopo tanti anni, la possibilità che un editore si occupi di lui gli appare un miraggio. Eppure Giambattista continua il suo lavoro, e scrive, con la fiducia incrollabile in ciò che fa.
La domanda iniziale, comunque, resta: quando un uomo diventa scrittore, è un uomo cambiato o è solamente diventato ciò che doveva essere?

DOMENICO STRANIERI







lunedì 28 settembre 2015

IL MISTERIOSO OSPITE DEL DOTT. FENYVES

A Caraffa del Bianco l'incontro tra un medico ungherese e....

Dal mensile IN ASPROMONTE di settembre 2015

Il 15 marzo 1980, per qualche minuto, in Brasile, una donna pensò di intraprendere un lungo viaggio verso l’Italia, precisamente in Calabria. Quel giorno era morto suo padre, Andrea Fenyves, un medico che dal febbraio 1930, per alcuni anni, aveva lavorato in un paese aspromontano, Caraffa del Bianco, dove, ancora oggi, viene ricordato come “l’ungherese”.

Il dott. Fenyves, difatti, era nato a Budapest il 13 giugno 1904, in una famiglia di origini ebraiche. Per questa sua discendenza, pur essendosi convertito al cattolicesimo, nel giugno del 1940 subì la triste disavventura di essere rinchiuso nel campo di concentramento di Notaresco (TE). Era il n. 129 della lista degli ebrei “apolidi”. Venne catturato a Clana, vicino Fiume (oggi Rijeka, Croazia), dove si era trasferito perché in Calabria non percepiva più lo stipendio (probabilmente a causa di un complotto ordito da alcuni signorotti locali). Liberato nel gennaio del 1941, grazie all’intercessione di Pio XII, Andrea Fenyves emigrò definitivamente in Brasile, a San Paolo.
Eppure, ai figli ed ai nipoti, non ha mai smesso di riportare aneddoti riguardanti la sua esperienza in Calabria: dall’amicizia con Francesco Rossi, di Sant’Agata del Bianco, alle chiacchierate con il podestà di Caraffa.
Andrea Fenyves e Francesco Rossi
a Sant'Agata del Bianco (anni '30)

E tuttora molti anziani hanno presente la figura del medico che, proprio a Caraffa, ricevette la cittadinanza onoraria italiana da parte del regime fascista per aver guarito numerosi abitanti colpiti da una malattia sconosciuta (la Leishmaniosi umana).

Il prof. Carlo Galletta, ad esempio, con lucidità e affetto, ne descrive l’essenza umana e la specificità professionale, ricordando quando, da bravo chimico, si recava dal farmacista Ruffo per elaborare le dosi esatte di qualche medicinale.
Inês con il prof. Galletta (luglio 2014)
Per tutti, quindi, il dott. Fenyves era l’uomo della provvidenza, capace di curare ferite e malattie, sempre gentile e disponibile, così simile, in un certo senso, al Carlo Levi di Cristo si è fermato ad Eboli (anch’egli arrivato da lontano nel cuore di un’isolata società contadina).

Pure i figli del medico ungherese, MagdaAlessandro, nasceranno a Caraffa del Bianco, laddove, nel 2013, dopo 80 anni, Magda ritornerà per cercare le tracce del suo passato. Un anno dopo (luglio 2014) visiterà la Calabria anche la figlia di Magda, Inês, quasi a testimonianza del rapporto profondo che lega questa famiglia alla nostra terra. Sono tante, difatti, le storie narrate dal nonno a Inês. Tra queste, quella del suo arrivo nella casa di Caraffa, di fianco la chiesa di San Giuseppe.  

Il dott. Fenyves raccontava di essere entrato nella camera, che poi sarebbe diventato il suo studio, e di aver trovato una persona piegata sulla scrivania, con la mani poggiate ai lati della testa come per evitare che cadesse.
Dopo la sorpresa iniziale, l’ignoto ospite disse al medico di non temere: egli frequentava abitualmente quella casa prima del suo arrivo, comunque, ora, sarebbe andato via.
La circostanza, quasi da situazione teatrale, incuriosì il dott. Fenyves che iniziò a chiedere alla gente chi fosse quel bizzarro personaggio.
Magda Fenyves nella "sua" casa
di Caraffa del Bianco
Ma, quando descriveva le sembianze fisiche dell’uomo, tutti rispondevano alla stessa maniera: “si tratta del cav. Pietro Paolo Mezzatesta, morto qualche anno addietro, il 10 novembre 1927. E’ stato il primo podestà del paese e sindaco varie volte a partire dal 1886. E’ capitato pure ad altri di incontrarlo. Però è un fantasma buono”.

Mai, in paese, si era parlato con tanta serenità di uno spettro, come se fosse qualcosa di normale, una certezza collettiva, un’altra condizione dell’esistere.
Tuttavia c’era una verità, un segreto, che bloccava ancora il cav. Pietro Paolo Mezzatesta sulla terra, tra i viventi, e che lo faceva penare come alcune anime descritte da Dante.
Un segreto che, una notte di pioggia, il fantasma svelò solamente al dott. Fenyves prima di congedarsi da lui e scomparire per sempre.
Non sappiamo se il medico ungherese abbia mai rivelato a qualcuno le parole di quell’ombra amica (di cui gli anziani rammentano la leggenda, coscienti che, per qualche motivo, adesso non c’è più).

Ma, di sicuro, Andrea Fenyves è riuscito a tratteggiare nella mente dei suoi familiari le immagini di un luogo ove spesso agiscono forze più grandi e forti degli uomini; senza dimenticare quella geografia poetica e quel dolore umano che, prima di lasciare Caraffa, egli seppe caricare nel suo cuore e portare con sé nel lungo viaggio della vita.


domenica 6 settembre 2015

"FAVATE", RISORSA SCONOSCIUTA!

A Casignana sono ancora fruibili le acque termali dei Romani. Ma nessuno lo sa!
Dal mensile IN ASPROMONTE di Agosto 2015
Nelle sue Memorie (1856), l’arciprete Vincenzo Tedesco scrive: “In distanza di qualche miglio da Casignana nella contrada Favate, in terreno calcare vi è una sorgente copiosa di acqua minerale, che a mia richiesta analizzata dai fratelli farmacisti D. Biagio e D. Giuseppe Ielasi [...]. Tale acqua sarebbe utile alla cura di varie malattie, e però si dovrebbe ben condizionare, per renderla idonea all’uso medico”.

A dire il vero contadini e pastori, in passato, si sono regolarmente serviti degli effetti benefici dei fanghi che, in modo naturale, hanno origine in questa località. E non è difficile immaginare che le acque termali siano state utilizzate soprattutto dai Romani, vista anche la breve distanza che intercorre tra l’area di Favate e la Villa romana di contrada Palazzi. Anzi, molti agricoltori raccontano di aver involontariamente distrutto, durante i lavori nei campi, dei tubuli di terracotta che erano orientati in direzione della Villa, verso il mare e lungo il pendio della collina. 
Negli anni ‘60 e ‘70, comunque, numerose famiglie costruivano delle “logge” di canne e felci per dimorare vicino alla fonte termale di Casignana e, per qualche giorno, curavano vari disturbi legati a problemi reumatici. Insomma, da sempre, i fanghi delle Favate sono salutari per il corpo.
Anche un medico di Caraffa del Bianco che risiede al Nord, ma ogni estate torna in Calabria, non ha dubbi riguardo le capacità terapeutiche della sorgente. Pertanto, con alcuni amici, condivide un itinerario fisso: di mattina si ritrovano tutti a Capo Bruzzano, davanti alla scogliera, in una spiaggia che può competere per bellezza con qualunque posto del Mediterraneo. Pomeriggio, invece, trascorrono alcune ore presso le acque termali di Casignana. Costo della vacanza: completamente gratis. 
Pure io, a luglio 2014, mi sono recato alle Favate in compagnia di questo medico che, dopo essersi spalmato il corpo di materia argillosa (aspettando che si consolidasse prima di iniziare la sua azione antinfiammatoria) ironicamente mi raccomandava: «Non scrivere mai di questo luogo, non pubblicizzarlo mai, non sarebbe bello attendere in fila per fare i fanghi. Godiamoci questo paradiso da soli».
Era un modo stravagante per dire che posti unici, che altri popoli avrebbero utilizzato bene, qui, nel migliore dei casi, vengono abbandonati. Perfino in un momento in cui accrescono le inefficienze del sistema statale e ovunque si spinge per l’intervento dei privati, in questo sito (che dista qualche chilometro dalla Villa romana e qualche centinaio di metri dall’Albergo diffuso del Borgo antico di Casignana) non c’è un progetto, non ci sono società, cooperative o imprenditori interessati a realizzare una struttura moderna e confortevole. Ecco perché le acque termali, come altre aree, rivelano le opportunità di un turismo che non c’è.
La colpa? Di tutti. Chiaramente il ruolo dei privati andrebbe costruito partendo da una buona politica, ma quasi nessuno riesce più a protestare, ideare o immaginare qualcosa. Nei posti dove la storia non esiste hanno inventato i theme park, ovvero vengono creati dal nulla un monumento, un villaggio, un percorso o un affascinante scenario antico. Noi siamo impegnati nel lavoro opposto, cioè a distruggere o rovinare, dimenticando non solo il passato ma anche il futuro.
Tuttavia, nelle vicinanze delle acque di Favate, che probabilmente appartengono alla stessa faglia che caratterizza le terme di Antonimina, c’è una realtà sorprendente. 
Ma non abbiamo più occhi per le colline di argilla bianca dove si produce il vino greco, per il mare che un Hemingway o un Conrad avrebbero narrato traendo chissà quali insegnamenti di vita, per le due fiumare che abbracciano un paesaggio che gli dei ci avevano assegnato senza rovine, e nemmeno per l’Aspromonte a cui ci legano i segni visibili ed invisibili dei nostri antenati. Siamo assuefatti a tutto, persino a non considerare il turismo.


Ecco, adesso con questo articolo ho tradito la fiducia del mio amico medico che, quando arriverà in estate, per qualche tempo, di sicuro non mi porterà più con lui. Poi scoprirà che ancora per molti anni potrà continuare ad andare alle Favate senza incontrare troppa gente, ed allora si farà una bella risata e intenderà che, per cambiare le cose del mondo, scrivere e raccontare, certe volte, non basta.


DOMENICO STRANIERI








Dal mensile IN ASPROMONTE di Settembre 2015



domenica 26 luglio 2015

FÁBON E IL SUO AMORE POETA

UN PITTORE ED UNA POETESSA,
DUE VITE INSEPARABILI

Dal mensile IN ASPROMONTE di luglio 2015



Arrivava dal
Canada, Carmela Curulli. In quella terra lontana aveva perso il padre, e sulla nave per l’Italia, uguale a quelle che vengono riproposte in tanti film, aveva esalato gli ultimi respiri pure la madre. Erano gli anni ’30 del Novecento, la ragazza era nata a Montreal nel 1918 ed in quel viaggio disperato aveva pensieri che si confondevano con la salinità dell’orizzonte. 

Perché in mare aperto è impossibile non guardare l’orizzonte senza collegarlo, in un certo modo, al proprio futuro, alle proprie domande e angosce. Nel porto di Palermo la attendeva un giovane pittore, Domenico Bonfà (che più tardi anagrammerà il suo cognome in Fàbon). Domenico, nato a Sant’Agata del Bianco (RC) nel 1912, era apprendista in una bottega d’arte a Catania e non conosceva l’aspetto della ragazza che, tra l’altro, era una sua parente.
Non sappiamo esattamente come andarono le cose, non sappiamo se si riconobbero subito né cosa si dissero, ma, poco tempo dopo, i due si innamorarono e si sposarono proprio a Sant’Agata nel 1933.

Esiste ancora una foto di quelle nozze. E’ stata conservata da Alba Dieni, una pittrice straordinaria (figlia di Giuseppe Dieni, autore di Dove nacque Pitagora?, Frama Sud 1976), che ammirava molto la figura artistica di Fàbon.
Dopo il matrimonio, Carmela, che aveva frequentato delle scuole private in Canada, iniziò a leggere con passione tutto ciò che riusciva a trovare, scriveva versi, osservava il marito che disegnava forme misteriose e paesaggi mediterranei.

Carmela Curulli

Dopo qualche anno di permanenza a Sant’Agata del Bianco, dove il padre di Fàbon gestiva una falegnameria con l’eleganza di uno scultore rinascimentale, i due si trasferirono a Reggio Calabria.

Ma nel 1942 arriverà la chiamata alle armi e Domenico (ormai denominato da tutti, in paese, “u pitturi”) sperimenterà la vita da prigioniero a Tobruch, in Libia. Carmela vivrà nella speranza quotidiana della liberazione del marito, temendo per la sua salute. Continuerà i suoi studi a casa, da autodidatta, ed intanto, senza nemmeno saperlo, diventava poetessa. Ecco come viene menzionata nel volume “Due più due fa cinque” (L’Avamposto, 1986): “Donna dal portamento distinto, quasi aristocratico, ma immune da tendenze elitarie, Carmela Curulli, pur non sorretta da studi regolari, è riuscita ugualmente ad impadronirsi della lingua. E spinta del desiderio della parola scritta ha cercato di dare forma ai suoi sentimenti. Nei suoi versi troviamo una sofferenza quasi sempre soffocata dalla quotidianità, dalle ristrettezze ambientali. Ed anche la coscienza della brevità del sogno”.

Fàbon rientrerà dalla Libia nel 1946 e la giovane moglie, che lo aveva atteso come una Penelope moderna, non lo abbandonerà più. I due affronteranno ogni viaggio, ogni difficoltà, insieme. Carmela seguirà il marito in giro per l’Italia, in Canada, negli Stati Uniti. Le due vite, inseparabili, saranno sempre volte alla difesa della loro arte. 

Nel periodo di soggiorno a Ravenna (1954-55), Carmela (che firmerà sempre i suoi lavori: Carmela Curulli Fàbon) diventerà caporedattore della rivista “Il Sentimento”. Le sue poesie saranno pubblicate anche da altri periodici, come “Calabria letteraria”.

Domenico Bonfà, in arte FÁBON

Sono tempi difficili, che questi artisti, grandi e semplici nello stesso tempo, vivranno adattandosi alle tante geografie del mondo. “Siamo come coriandoli, che un’alta mano sparge sulla terra nell’ebbrezza serale..” scriverà Carmela nell’incipit di una poesia del 1954

Secondo i figli di Fàbon il padre avrebbe probabilmente abbandonato il suo impegno di pittore, sconfitto dalle difficoltà, se non avesse avuto al suo fianco una donna che aveva compreso che egli poteva essere unicamente quello, destinato a vivere solo all’interno della sfera della sua sensibilità. E quando ai vari riconoscimenti si alternavano i momenti di precarietà, quando non era possibile comprare nemmeno una tela o ricavare l’esattezza di un colore, l’unione di queste due persone non smarriva mai la loro forza, la loro verità da salvare.
Basta immaginarla la vita di un pittore ed una poetessa nel contesto storico calabrese di quegli anni, nella nostra terra senza memoria, dove l’esistenza di un artista non può che essere “tragica”.

Non so se esistano intellettuali in Calabria; ho imparato, però, che non ci sono politici. Non si spiegherebbe altrimenti l’oblio di tante figure della nostra cultura, completamente cancellate. Non si comprenderebbe perché da più di 30 anni non viene allestita una mostra con le opere di Fàbon.

Il 27 agosto del 1969, il pittore, vinto da un male incurabile, si spense a Roma, quasi certamente guardando la moglie con quegli occhi che lo scrittore Giuseppe Melina descriveva come “un guizzo” che “se si accentra su un foglio di carta, lo brucia forse.”
L’anima di lei, come era naturale, cessò di vivere in quel preciso giorno. E poco importa se l’anagrafe ci ricorda che Carmela Curulli morì nel 1974.
Per una poetessa ed un pittore anche l’ultimo viaggio, quello più misterioso, non può che essere affrontato insieme.

DOMENICO STRANIERI


Una poesia di Carmela Curulli
pubblicata sulla rivista IL SENTIMENTO