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giovedì 18 aprile 2013

I POETI CONTADINI DI SANT'AGATA DEL BIANCO (RC)


MURALE DEDICATO AI POETI CONTANDINI NEL BORGO DI SANT'AGATA DEL BIANCO.

 
 Testa? Croce? Testa, Sant’Agata! Giù, perciò! Ed eccoci penetrare in un nuovo scenario: sommità e linee al di là di altezze crestose e abbaglianti bianche fiumare, tratti di colline al mare scintillante e secchi bagliori”. Così, per una fatalità, Edward Lear (artista e scrittore inglese) racconta il suo arrivo a Sant’Agata del Bianco. Passerà la notte nel “grande palazzo poussinesco e antico del barone”. Era il 1847. Ma Lear è solo uno dei tanti viaggiatori che, per caso, sono giunti in questo singolare paese di collina.

Anche Giuseppe Josca (giornalista Rai ed inviato speciale del Corriere della Sera) raggiunge Sant’Agata per una pura combinazione. Un suo libro, C’era una volta il Sud, Rubbettino, 2003, include, infatti, un articolo pubblicato su “Il Giornale” nel 1959 dal titolo “I poeti contadini di Sant’Agata. L’autore narra come, trovandosi nei pressi di Sant’Agata, una pioggia improvvisa bloccò il suo cammino costringendolo a rifugiarsi in una capanna ove incontra un vecchio dalla “barba lunga e incolta”. Sceso in paese, “al caffè in piazza”, viene a sapere che quel vecchio è Rocco Luverà, un poeta chiuso “da tempo immemorabile” nel suo rifugio (dove compone versi di “grande bellezza”).

Tuttavia, molto presto, Josca scoprirà che Rocco Luverà non è l’unico, a Sant’Agata, a creare e registrare poesie nella mente. “ Quella sera, nell’osteria del paese, fui spettatore di una curiosa sessione poetica”, racconta il giornalista, il quale tra “tozzi di salame sott’olio innaffiati da un buon vino rosso” ascoltava, conquistato, le sconvolgenti liriche di contadini analfabeti.

Sono diversi i “rimatori” che, ancora oggi, molti ricordano. Michele Strati (u Dia), Francesco Pulitanò, Michele Gigliotta, Carmela Barletta (nella foto, sotto), Peppe Gallo ecc.....Poeti di un tempo mitico quando, alla maniera degli antichi greci, i canti si tramandavano oralmente. Ecco  perché, da sempre, si ravvisa la paura che assieme alla fine dell’uomo scompaia anche ogni segno della sua realtà culturale. Ed in effetti alcune figure sono avvolte da una sorta di indecifrabilità, per cui si conoscono i nomi e le "fatiche sovrumane" di molte persone ma non si ha traccia di alcun componimento (poesie, farse, serenate).
Alle quattro del mattino – si legge in “Cera una volta il Sud” - i poeti di Sant’Agata sono già in piedi; spesso devono camminare due o tre ore, nella calura o nelle intemperie, per andare a coltivare il morso di terra che li sfama, o portare a pascolo il gregge. Poi vengono le lunghe e tristi ombre della sera. Forse è allora, nella solitudine delle scarrupate capanne, che gli viene voglia di dare sfogo alle loro pene”.

Di Sant’Agata del Bianco è anche Saverio Strati, il quale nel 1959, mentre Giuseppe Josca scriveva il suo articolo, pubblicava uno dei suoi romanzi più belli:  Tibi eTascia.
Lo stesso Strati, già nel 1953, suggeriva alla rivista “Vie Nuove”  di occuparsi dei poeti contadini del suo paese, intendendo il valore culturale dei “poeti senza scuola” e considerando non più rinviabile “il problema di uno sviluppo della cultura popolare”.
Un altro poeta di Sant’Agata, Giuseppe Dieni, autore, finanche, di teatro popolare e prosa narrativa, ha avvertito un profondo interesse per questa letteratura dialettale che “non fu mai scritta”. “Sarebbe interessante - scrive Dieni - raccogliere e fissare in un libro queste voci, alcune che si tramandano da molti secoli, prima che si spengano per sempre privando i posteri di ogni loro notizia”.

Ma, forse, il più attento osservatore di questa particolare “spinta umanistica” è stato Giuseppe Melina, poeta e saggista, il quale ha sempre concepito la necessità di “riappropriarci” della nostra cultura affinché il vuoto tra presente e passato non diventi definitivo. “Il nostro ambiente, da qualche tempo, è gelato in una condizione paurosa – avvisa MelinaEsso è senza memoria. Ha interrotto come, la sua continuità storica. E con taglio verticale. Gli stessi giovani si muovono isolati...”.
Da qui l’arte concepita come un “guardarsi dentro”, per capire la vera fisionomia di una comunità, i segni della sua identità. Ed in modo inconfondibile.








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