HOME PAGE

domenica 28 giugno 2020

La "leggibilità" della Locride

In un libro dal titolo “La leggibilità del mondo” il filosofo tedesco Hans Blumenberg ha provato a “sillabare la realtà come se essa fosse esposta in un libro aperto”. Non un’interpretazione del mondo ma una sua lettura che tiene conto “dell’indebolimento dell’autenticità dell’esperienza”. 

Ho ripensato a questo libro apprendendo che è stato presentato un video di promozione turistica della Costa dei Gelsomini, un “tentativo di ripartenza” (come lo ha definitivo Klaus Davi). Nulla da dire al massmediologo che, giustamente, prova a scuotere l’immobilismo di testa e sguardo di molti di noi proponendo un’immagine “diversa” della Calabria. 

E se per un video di 2 min. molti restano a bocca aperta come se arrivassero direttamente da una sorta di “età di mezzo”, questo mi fa riflettere sul nostro abituale, sconsolante, atteggiamento. 

Tempo fa, in una circostanza quasi simile, scrissi che “la Calabria è una regione che si accorge di essere bella perché ne parla, in un pezzo, il giornale francese Le Monde o perché il New York Times l’ha inserita fra i 52 posti al mondo da visitare nel 2017”.  

Ancora oggi è così: siamo come “un popolo intero di nati ciechi, tra i quali giunge uno straniero che, unico veggente in tutto il paese, per la prima volta rende accessibile agli abitanti la loro realtà”.

Anche perché i nostri artisti nemmeno li conosciamo e gli scrittori, probabilmente, sono troppo “nostri”, hanno nomi poco “eccentrici” (quanto basta per essere citati e non letti), segnalano parecchi mali, ci dicono che la rivoluzione, la forza per risollevarci, deve nascere dentro di noi perché non verrà mai nessuno da fuori a salvarci.

E per trovare questa forza non basta ripetere 200 volte la parola “sinergia” in ogni convegno (proviamo qualche volta a parlare anche di “intelligenza di sistema”). 

Il cosiddetto “turismo culturale”, poi, non è un semplice elenco di bellezze e monumenti, ma il risultato di un certo modo di ripensare agli elementi distintivi della nostra identità, alle risorse che vanno organizzate e gestite. Seguire l’esempio di Matera, o di altri luoghi, presuppone la capacità di progettare e avere una visione di futuro. Occorre costruire una vera narrazione che trasformi il patrimonio culturale e naturalistico in esperienza evocativa legata al territorio.

Il riscatto della Locride, in questo mondo, non conosce altre scorciatoie.



Con l'amico Walter De Fiores (Radio Venere) mentre provo a raccontare la "leggibilità" di Sant'Agata del Bianco


 

martedì 2 giugno 2020

EDWARD LEAR E IL MISTERO DEI DUE CAMPANILI

PUBBLICATO SUL PERIODICO "SENTIERI RESILIENTI" 
(Anno 1- N.01 GIUGNO 2020)

Non ci sono più le lapidi dei baroni Franco né il monumento funebre con i resti dell’arciprete Vincenzo Tedesco nella chiesa di Sant’Agata del Bianco. E’ stata distrutta ogni memoria, cancellata per sempre, durante una ricostruzione del 1954, nel silenzio e nell’indifferenza di tutti. Non ci sono più i quadri di Nicola Franzè, forse preservati tra i tesori di Gerace, e resta poco del palazzo baronale che ha ospitato nel 1847 il viaggiatore inglese Edward Lear

Tuttavia, dal 2017, nel Borgo di Sant’Agata esiste un murale realizzato dall’artista Andrea Sposari che riproduce un disegno di Lear tratteggiato proprio durante la sua permanenza a Sant’Agata (e conservato all’Università di Harvard, nell'area metropolitana della città di Boston). La vista è quella dell’altura di Cola, la collina dove si “rintanava” Saverio Strati per scrivere “Il selvaggio di Santa Venere”. Lear aveva 35 anni quando arrivò nel “grande palazzo puossinesco e antico” del barone Franco (un anno prima aveva pubblicato il suo “A Book of Nonsense”)  ed è singolare che nessuno, prima del 2017, lo abbia mai ricordato, anche solo con un “segno”, nelle piazze o per le vie di Sant’Agata. 

Il 6 agosto 1847, accaldato e tormentato dalla sete, Lear consumò vino e neve a Casignana e poi si incamminò lungo il “sentiero agevole” di Faccioli (“fra boschi ricchi di castagni o per stretti e folte siepi di terra rossa, con frondose querce sopra di noi e il mare ad est che luccicava tra i rami”). Giunto a Sant’Agata fu ospite della famiglia baronale, mancava solo la baronessa, gravemente ammalata. E così Lear, i suoi compagni di viaggio e l’arciprete Tedesco, insieme ad altri venti invitati, cenarono con i fratelli del barone ed i figli. “La volontà di accoglierci – scriverà Lear nel suo diario - cosa che abbiamo notato non mancare in tutta la Calabria, è stata perfettamente manifestata dalla sorprendente comparsa di maccheroni, uova, olive, burro, formaggio e naturalmente vino e neve sulla tavola apparecchiata con una delle più bianche tovaglie di lino, e luccicante di argenteria e cristalli”. 

E’ singolare notare come in molti paesi del nostro territorio, nella metà del 1800, era possibile bere vino e neve ad agosto. Questo perché nelle montagne d’Aspromonte esistevano le neviere, ovvero strutture costruite in pietra, sottoterra, dove veniva conservata la neve da vendere in estate. Lear soggiornò poco a Sant’Agata, partì la mattina del 7 agosto, ma fece in tempo, sicuramente prima del tramonto del 6 agosto, a raffigurare qualcosa, a pensare al fluire di una narrazione. E mentre delineava palazzi e scenari naturali, l’artista scriveva note e sensazioni, indicava in inglese dei vigneti, un giardino e poi appuntava che “la montagna è blu”. Ancora oggi, poco prima del crepuscolo, il massiccio di Scapparrone, davanti a Sant’Agata, diventa di un blu scuro che pian piano si annera prima di svanire nel buio della notte. 

L’artista inglese rappresentava solo quello che vedeva, non aggiungeva o toglieva nulla ai suoi paesaggi. Ecco perché sorprende notare che, nel suo disegno, dalla facciata della chiesa di Sant’Agata (ex chiesa di San Nicola) si elevano due campanili e non uno soltanto. Accanto alla chiesa, a sinistra, c’è poi una casa bassa (spazio che nel ‘900 sarà utilizzato da Carlo Rossi per proiettare i film del suo mitico cinema) e, subito dopo, una casa a due piani che, come qualcuno sostiene erroneamente, non è il palazzo baronale ma, quasi certamente, la casa della famiglia Garzia. Per riprodurre la residenza del barone Franco, Lear avrebbe dovuto raffigurare un’altra prospettiva, una sorta di continuazione di quella che oggi conosciamo (e della quale una copia, dal 2019, è esposta anche all’interno del Municipio di Sant’Agata).

Ma come mai la chiesa che, dal 1954, ha un solo campanile nella parte retrostante di essa, nel 1847, per Lear, aveva due campanili? E’ solo un gioco di prospettiva poiché esisteva, quasi di fronte al palazzo baronale, ancora un rudere della Chiesa di San Rocco (che, però, il Canonico Oppedisano segnalava “abbattuta da una tempesta nel 1745”) ? La chiesa di San Nicola (ora di Sant’Agata) aveva due torri campanarie ma nessuno lo ha mai scritto? Al momento si sa, grazie ad alcune foto, che fino agli anni ‘30/40 del ‘900 esisteva un campanile posto davanti la facciata della chiesa con una piccola cupola identica a quella che illustrò Lear. Il secondo campanile non esiste e anche quello rappresentato nel disegno ha una forma dissimile rispetto al primo. 

Ancora oggi, quindi, rimane il mistero, nato durante il tramonto del 6 agosto 1847, di ciò che videro realmente gli occhi del viaggiatore inglese, che, con passione e curiosità, tratteggiava in presa diretta istantanee della nostra storia che solo noi potevamo perdere.


DOMENICO STRANIERI





Sant'Agata vista, oggi, dall'altura di Cola


Sant'Agata del Bianco, disegno di E.Lear del 1847



Particolare del disegno di E. Lear


Foto Chiesa Sant'Agata, con un campanile, prima del 1954