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sabato 22 febbraio 2014

L' UNIVERSO ARTISTICO DI FÀBON (Sant'Agata del Bianco 1912 - Roma 1969)

da "IL QUOTIDIANO DELLA CALABRIA" del 16 febbraio 2014








IL TESTO DELL'ARTICOLO

Nel mondo ci sono più di mille opere firmate Fàbon. Tale anagramma è il nome d’arte del pittore Domenico Bonfà, nato a Sant’Agata del Bianco il 4 febbraio del 1912 e morto a Roma il 27 agosto del 1969. Non ricordato da nessuno nel 2012, in occasione del centenario della sua nascita, Fàbon era un artista sensibilissimo, votato ad una pittura che ai colori della sua terra univa quelli dell’intero spazio mediterraneo. I suoi paesaggi rivelano, difatti, un’istintiva originalità soprattutto laddove le figure appaiono e scompaiono con aria quasi impenetrabile.

Ma prima di essere Fàbon, Domenico Bonfà è il figlio del migliore falegname ed intagliatore della Locride, Vincenzo Bonfà detto Brendolino, un uomo che non teme di confrontarsi con i falegnami di tutta Italia esibendo la maestria dell’antico artigianato santagatese che, sin dall’Ottocento, è rinomato nell’intera provincia di Reggio Calabria. Sulla sua lapide, difatti, si può ancora notare una medaglia vinta a Firenze nel 1923 in occasione dell’Esposizione Permanente d’Arte Industriale. Il giovane Domenico sembra destinato a ereditare il mestiere del padre anche se ha, prima di tutto, una peculiare predisposizione per il disegno. Tratteggia visi e scenari ovunque gli capita: pezzi di compensato, tavolette, cartone, brandelli di lenzuola.

E’ il secondogenito di una famiglia numerosa (l’ultima sorella, Fausta, è morta a Sant’Agata il 21 aprile del 2013) e non è  facile, agli inizi del ‘900, andare fuori dalla Calabria per studiare. Ma Domenico è davvero bravo. Se ne accorge per primo il maestro della scuola elementare che ogni mattina, alla lavagna, trova disegnato il suo ritratto da quest’allievo che si diverte ad eseguire effigi e caricature. Per di più, con la creta, realizza personaggi del presepe per chiese e abitazioni private. Così, nel 1926, il falegname Vincenzo, incoraggiato da tanti suoi compaesani che intravedono il talento del figlio, manda Domenico a Catania per apprendere gli elementi della pittura in una bottega d’arte, alla maniera degli artisti del Rinascimento.

Fàbon

Nella città siciliana il giovane rimane sette anni. Rientrato a Sant’Agata sposa una sua parente, Carmela Curulli, appena arrivata dal Canada.

Ecco come lo ricorda il poeta santagatese Giuseppe Melina: “ La casa di Fàbon è uno spazio d’incontro dove respira il paese intero. Ma il pittore Fàbon non cerca compagni solo in chi si interessa d’arte. E’ amico di contadini e artigiani. Penso le partite a carte. Interminabili. E per un bicchiere di vino spesso si balla. E Fàbon diviene il centro di queste sere. Tutto si muove intorno a lui. E in rapporto a le sue decisioni. L’armonia del suo corpo ci rende ridicoli, quasi. Ma perché ogni gesto, ogni movenza è ritmo puro in quest’uomo. E non solo se balla. Perfino come fuma o conversa con qualcuno”.


Nel 1933 arriva il trasferimento a Reggio Calabria, dove il giovane pittore affina la sua ricerca verso la definitiva conquista della forma. Il suo è un continuo migliorarsi. Dal 1938 si sposta per varie città italiane insieme alla moglie. A Bari, proprio nel ‘38, partecipa ad una mostra collettiva del “Paesaggio Albanese”. Ma nel 1942 arriva la chiamata alle armi e Domenico si ritrova in Africa dove, a Tobruch, viene fatto prigioniero. I colori del deserto libico gli rimarranno dentro e  caratterizzeranno molte sue opere. Rientrato in Italia inizia l’attività espositiva prima a Catania (1945) e gli anni a seguire a Reggio Calabria (un paesaggio del 1949 è tuttora esposto alla Pinacoteca Civica della città dello Stretto).

Nel frattempo un altro pittore, Alberto Bonfà (di Bianco), che ha frequentato l’Accademia delle Belle Arti a Napoli, si fa apprezzare per la luce dei suoi paesaggi.
Anche per questo motivo, Domenico pensa di creare dal suo cognome una firma originale che lo faccia distinguere dall’altro Bonfà. Inizia così a contrassegnare i suoi primi lavori con un nome d’arte che non abbandonerà più: Fàbon. L’idea gli è suggerita dal poeta reggino Ciccio Errigo, suo amico.
E’ singolare che nello stesso momento, provenienti dalla stessa zona, siano attivi due pittori con il medesimo cognome. Una presenza, questa, inspiegabilmente sottovalutata che darebbe una valenza culturale più considerevole ad un territorio che in quel periodo esprime anche i suoi grandi scrittori (Alvaro, La Cava, Perri, Strati, Montalto ecc.)

Dopo il 1946 Fàbon comincia nuovamente a viaggiare per l’Italia. Affresca chiese e dipinge quadri di una segreta spiritualità, volti di donne misteriose, paesaggi intensi. Con il pennello o con la spatola imprime i segni distintivi della sua tecnica. Risiede per qualche tempo a Genova richiamando l’attenzione dei musei europei. Le sue figure sembrano scolpite tanta è la forza monumentale che possiedono. Sul “Giornale di Sicilia” del 7 aprile 1948, riferendosi a Fàbon, Vittorio Rossi sottolinea: “Si sente che nella sua composizione non ci sono esitazioni, pentimenti, rifacimenti. Tutto è composto di getto, tutto è spontaneo, tutto è immediato …. dà prova di una sincerità artistica, di una onestà pittorica molto rari ai tempi che corrono, e di cui bisogna lodarlo senza riserva”. Il pittore manifesta, difatti, un’ancestrale sensibilità con la quale comunica il fascino e la durezza della vita.

Cascata che riproduce "Lo schiccio"
di Sant'Agata del Bianco

Egli “solidifica” le apparenze visive, tanto che alcune immagini appaiono quasi sospinte fuori dalla tela. A volte, per scardinare la vecchia tradizione figurativa, effettua delle marcate “esagerazioni” delle forme ma riesce ugualmente a non tradire l’armonia dell’intricato gioco di linee, colori e personaggi.
Su “Il Messaggero” del 15 gennaio 1953  in un pezzo a firma di Enzo Bruzzi si legge: “questo artista, umile ed onesto, avanza. E’ la sua arte che lo guida per mete sublimi con mano affettuosa e materna per premiarlo dalle fatiche e dalle pene sofferte negli alti silenzi dello spirito”. Molti percepiscono nel suo modo di dipingere una tensione profonda, quasi una “leggenda mistica”.

Dopo la mostra di Torino del 1954 (Mostra nazionale Ars Plauda) e quella di Bologna dello stesso anno (Mostra nazionale di Arte Sacra) illustra persino volumi di poesia come “Il grido dell’uomo del Sud” di G.B. Giordano e “I giochi dell’Anima” di Ivonne Rossignon

Per di più, durante un soggiorno a Ravenna, le riviste “Calabria Letteraria” e “Il Sentimento” pubblicano i versi di Carmela Curulli, la moglie del pittore. Entrambi sono alla ricerca di un modo essenziale e permanente di rappresentare ciò che vedono e provano. In un componimento del 1954 dal titolo “Altro cercavo” Carmela scrive: “Pentita dal volo troppo alto sarei tornata per essere quieta all’angolo del focolare e al suo tepor dimenticare il sole: ma più non potevo, avevo cercato altro l’inesistente impalpabile nulla”.

Intanto, il 23 marzo del 1954, La Tribuna del Mezzogiorno, in un editoriale polemico nei confronti dei critici della Biennale di Venezia (colpevoli di sottovalutare i talenti del sud), menziona Fàbon quale esempio di artista che non ha nulla da invidiare ai maestri europei. Sempre nel 1954, il pittore viene nominato vice segretario regionale per la Calabria dal comitato U.S.A.I.B.A (Unione Sindacale Artisti Italiani Belle Arti) e lavora con il settimanale “Il Mezzogiorno di Reggio”.

Nel settembre del 1955 ad Assisi, dopo aver esposto al Palazzo dell’Arte Sacra in una mostra internazionale, Fàbon riceve il diploma d’onore per “alti meriti artistici”. In seguito allestisce le sue opere anche a Genova, Arezzo, Ravenna, Firenze, Messina nonché in Germania, in Francia, in Svizzera, in Argentina ed al Museum of Fine Arts di Montreal (1957). Quotidiani e riviste si mostrano attenti verso questo “pittore mediterraneo”.

Disegno, volto di donna

Ma è nel gennaio del 1956 che arriva l’effettiva consacrazione, con l’esposizione al Pavone Art Gallery di New York. Gli americani riconoscono che: “nato nei pressi di Reggio Calabria, è un completo artista ed un creatore di un originale stile e di un nuovo sistema. Ha una ispirazione creativa con note malinconiche di musico e di poeta. E’ Domenico Bonfà in arte Fàbon. Messosi in luce nell’ambiente artistico europeo egli è un conquistatore di molti elogi e critiche. Orgoglioso e magnifico nella delusione e nella esaltazione artistica oggi egli viene ad incominciare una nuova era nell’arte del dipinto”. I giudizi della stampa statunitense sono ripresi assiduamente dai giornali italiani. L’arte di Fabòn ha ottenuto i meritati riconoscimenti. 

A Roma, nello stesso anno, alla Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea, viene premiato con la medaglia d’oro. Sono anni intensi, caratterizzati da molti spostamenti e continui ritorni in Calabria
Reggio, dopo una faticosa ricostruzione, vive un periodo di grande vivacità artistica. Fàbon è uno dei suoi indiscussi protagonisti unitamente allo storico dell’arte Alfonso Frangipane, impegnato nel recupero socio-culturale della città. Le Biennali D’arte, insieme alle mostre personali e collettive, diventano punti d’incontro e dibattito con artisti anche internazionali.

Nel 1958, alla III° Mostra Nazionale estemporanea di Ravenna, il pittore consegue una medaglia, il diploma d’onore ed il premio del presidente del concorso. Anche la mostra personale di Arte Sacra (maggio 1961) tenutasi nel Palazzo dell’Arcivescovado di Reggio Calabria è un successo. Il Ministro Umberto Tupini, dopo aver visionato le opere esposte, avrà parole lusinghiere per l’artista.
Nel 1966 Fàbon è nominato accademico della “Accademia Tiberina” di Roma per “notevoli requisiti morali, culturali e scientifici”.

Egli ricerca le basi eterne del reale e del pensiero. Poche volte, difatti, ritrae l’attimo fuggevole. Il suo occhio non è una lente statica. Certamente conserva la purezza della sensazione eppure la sua materia non si sfalda, anzi, spesso, si lega a vere e proprie intuizioni filosofiche. Anche quando, nell’opera “Fragore e silenzio”, riproduce una cascata di Sant’agata del Bianco (denominata “Schiccio”) il pittore non effettua solamente uno studio della natura ma propone, soprattutto, “un’altra verità”. Un universo inedito che, oggi, quasi nessun calabrese ricorda, campioni come siamo a farci attrarre da uomini e cose distanti da noi. 

Per quanto riguarda la storia dell’arte, poi, essa è popolata da eccezionali artisti poco considerati. Illuminante, a proposito, è un commento di Vittorio Sgarbi nel suo “Discorso sulla pittura da Giotto a Picasso” edito da Rizzoli: “grande come Giotto è un pittore che si chiama Vitale da Bologna, ma si è cominciato a parlarne negli ultimi cinquant’anni e quindi Vitale da Bologna ha un ritardo di settecento anni di comunicazione mancata”. La speranza è che si possa riprendere a parlare di pittori come Fàbon e del suo discorso interrotto.

Nel 1968, difatti, a 56 anni, l’artista viene colpito da una neoplasia maligna che lo costringerà a curarsi a Roma e che gli risulterà fatale.

Qualche mese dopo la sua scomparsa, su Il Giornale d’Italia del 16 novembre 1969, Paolo Borruto scriverà: “I giudizi, dunque, consacrati dai critici su tutti gli organi di stampa più importanti, ed in tutto il mondo, concordano nel lodare la spontaneità, il vigore, la raffinatezza del gusto, l’arte, le proporzioni, di questo autentico Artista che l’Italia si onora di annoverare tra i migliori dell’ultimo ‘900. Egli presagì la fine. Ne è testimone la sua ultima tela che raffigura un volto egizio che appunta lo sguardo profondo, attonito, su una mummia collocata in una bara. La morte lo colse ancor giovane il 27 agosto 1969.

DOMENICO STRANIERI

domenica 16 febbraio 2014

IL CIMITERO SCOMPARSO

Dal mensile "IN ASPROMONTE" di Febbraio 2014

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley, l’ebulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso? Tutti, tutti, dormono sulla collina…”. Inizia così l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, un libro di poesia pubblicato in America nel 1915. In Italia l’opera arrivò solo nel 1943 grazie alla traduzione di Fernanda Pivano che ricorda come da ragazzina chiese a Cesare Pavese, suo insegnante, la differenza tra la letteratura americana e quella inglese ed egli le regalò quattro volumi tra i quali c’era pure l’Antologia di Spoon River. Il libro (che ispirò a Fabrizio De Andrè brani come “La collina”, “Il suonatore Jones” e tutto l’albumNon al denaro non all'amore né al cielo) è ordinato per epitaffi che narrano la storia di ciascun abitante di Spoon River sepolto nel leggendario cimitero.
Eppure anche l’Aspromonte ha la sua collina e la sua Spoon River con “la consapevolezza austera e fraterna del dolore di tutti, della vanità di tutti”. Solo che nessuno più la ricorda. In contrada Crocefisso, difatti, nel comune di Bianco, un vecchio cimitero abbandonato, contiguo ai ruderi del Convento di S. Maria della Vittoria, è interamente scomparso, coperto dalla vegetazione circostante. Il Convento risale al 1622 e già dal 1678 era rinomato per le due “Fiere della Croce” che si svolgevano a maggio. Da qui passarono i viaggiatori del ‘700 e dell’800, che trovarono ospitalità e si rinfrescarono nel suo pozzo (vedi E. Lear). Sempre in questo luogo partivano ed arrivavano le lettere fra Padre Bonaventura e Maria Cristina di Savoia, regina delle Due Sicilie, la quale, prima di sposare Ferdinando II, aveva scelto di farsi monaca. Maria Cristina fu sempre considerata una “Regina Santa” ed il 25 gennaio del 2014, a Napoli, è stata proclamata beata. Perché predilesse come suo confessore questo monaco calabrese rimane un mistero.
Successivamente anche il Convento di Contrada Crocefisso subì le violenze dei soldati Piemontesi che, arrivati qui per unificare l’Italia, lo incendiarono e fucilarono i religiosi.

Il “cimitero scomparso”, invece, con le sue storie, i suoi personaggi e le sue lapidi fu costruito agli inizi del ‘900 per i paesi di Sant’Agata, Caraffa e Casignana ed iniziò ad espandersi quando le fosse comuni, ove venivano seppelliti quasi tutti (eccetto i nobili), erano oramai sature.
Addentrandosi a fatica tra i rovi si riesce ancora a leggere l’epigrafe di un sepolcro ove riposa un ventenne di Sant’Agata del Bianco “assassinato inopinatamente”, il 25 agosto del 1931, dalla sua fidanzata. Un caso unico per i paesi della Vallata Laverde. Oppure si possono scorgere i nomi e le date incise sulla pietra resa nera dall’umidità. E chissà dove si trovano i resti del monaco Giuseppe Lucà, detto “u Jancu” (per il colore chiaro della sua pelle), che si innamorò di una ragazza del luogo e la sera, nel Convento, le offriva un’accoglienza non proprio religiosa. Oltre a ciò, si narra che il monaco, considerato una sorta di stregone, dopo la morte e poco prima di essere seppellito si svegliò.  Così un prete di Bianco, per non consentirgli di “resuscitare”,  lo colpì con una grossa croce di legno.
Tuttavia, adesso, il cimitero quasi non esiste. Si intuisce appena un cipresso che si erge solitario sopra un muretto di pietra. Tutto il resto giace sotto l’ombra, sospesa nel tempo, delle piante e degli arbusti. Eppure se questa collina non si trovasse in Aspromonte forse un Edgar Lee Masters ci avrebbe persino scritto un libro. Invece, alle persone interrate nel cimitero, ed ai loro nomi, pure l’altra vita gli ha reso soltanto il loro destino di affanno e miseria.


Contrada Crocefisso (RC)
Un muro del vecchio cimitero
La vegetazione che copre interamente i sepolcri
Il Convento contiguo al cimitero


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