da "IL QUOTIDIANO DELLA CALABRIA" del 16 febbraio 2014
IL TESTO DELL'ARTICOLO
Nel mondo ci sono più
di mille opere firmate Fàbon. Tale anagramma è il nome d’arte del pittore
Domenico Bonfà, nato a Sant’Agata del Bianco il 4 febbraio del 1912 e morto a
Roma il 27 agosto del 1969. Non ricordato da nessuno nel 2012, in occasione del
centenario della sua nascita, Fàbon era un artista sensibilissimo, votato ad
una pittura che ai colori della sua terra univa quelli dell’intero spazio mediterraneo.
I suoi paesaggi rivelano, difatti, un’istintiva originalità soprattutto laddove
le figure appaiono e scompaiono con aria quasi impenetrabile.
Ma prima di essere
Fàbon, Domenico Bonfà è il figlio del migliore falegname ed intagliatore della
Locride, Vincenzo Bonfà detto Brendolino, un uomo che non teme di confrontarsi
con i falegnami di tutta Italia esibendo la maestria dell’antico artigianato
santagatese che, sin dall’Ottocento, è rinomato nell’intera provincia di Reggio
Calabria. Sulla sua lapide, difatti, si può ancora notare una medaglia vinta a
Firenze nel 1923 in
occasione dell’Esposizione Permanente d’Arte Industriale. Il giovane Domenico sembra
destinato a ereditare il mestiere del padre anche se ha, prima di tutto, una peculiare
predisposizione per il disegno. Tratteggia visi e scenari ovunque gli capita:
pezzi di compensato, tavolette, cartone, brandelli di lenzuola.
E’ il secondogenito di
una famiglia numerosa (l’ultima sorella, Fausta, è morta a Sant’Agata il 21
aprile del 2013) e non è facile, agli
inizi del ‘900, andare fuori dalla Calabria per studiare. Ma Domenico è davvero
bravo. Se ne accorge per primo il maestro della scuola elementare che ogni
mattina, alla lavagna, trova disegnato il suo ritratto da quest’allievo che si
diverte ad eseguire effigi e caricature. Per di più, con la creta, realizza personaggi
del presepe per chiese e abitazioni private. Così, nel 1926, il falegname
Vincenzo, incoraggiato da tanti suoi compaesani che intravedono il talento del
figlio, manda Domenico a Catania per apprendere gli elementi della pittura in
una bottega d’arte, alla maniera degli artisti del Rinascimento.
Fàbon |
Nella città siciliana
il giovane rimane sette anni. Rientrato a Sant’Agata sposa una sua parente, Carmela Curulli, appena arrivata dal Canada.
Ecco come lo ricorda
il poeta santagatese Giuseppe Melina: “ La
casa di Fàbon è uno spazio d’incontro dove respira il paese intero. Ma il
pittore Fàbon non cerca compagni solo in chi si interessa d’arte. E’ amico di
contadini e artigiani. Penso le partite a carte. Interminabili. E per un
bicchiere di vino spesso si balla. E Fàbon diviene il centro di queste sere.
Tutto si muove intorno a lui. E in rapporto a le sue decisioni. L’armonia del
suo corpo ci rende ridicoli, quasi. Ma perché ogni gesto, ogni movenza è ritmo
puro in quest’uomo. E non solo se balla. Perfino come fuma o conversa con
qualcuno”.
Nel 1933 arriva il
trasferimento a Reggio Calabria, dove il giovane pittore affina la sua ricerca
verso la definitiva conquista della forma. Il suo è un continuo migliorarsi. Dal
1938 si sposta per varie città italiane insieme alla moglie. A Bari, proprio nel
‘38, partecipa ad una mostra collettiva del “Paesaggio Albanese”. Ma nel 1942
arriva la chiamata alle armi e Domenico si ritrova in Africa dove, a Tobruch,
viene fatto prigioniero. I colori del deserto libico gli rimarranno dentro e caratterizzeranno molte sue opere. Rientrato
in Italia inizia l’attività espositiva prima a Catania (1945) e gli anni a
seguire a Reggio Calabria (un paesaggio del 1949 è tuttora esposto alla
Pinacoteca Civica della città dello Stretto).
Nel frattempo un altro
pittore, Alberto Bonfà (di Bianco), che ha frequentato l’Accademia delle Belle
Arti a Napoli, si fa apprezzare per la luce dei suoi paesaggi.
Anche per questo motivo,
Domenico pensa di creare dal suo cognome una firma originale che lo faccia distinguere
dall’altro Bonfà. Inizia così a contrassegnare i suoi primi lavori con un nome
d’arte che non abbandonerà più: Fàbon. L’idea gli è suggerita dal poeta reggino
Ciccio Errigo, suo amico.
E’ singolare che nello
stesso momento, provenienti dalla stessa zona, siano attivi due pittori con il
medesimo cognome. Una presenza, questa, inspiegabilmente sottovalutata che
darebbe una valenza culturale più considerevole ad un territorio che in quel
periodo esprime anche i suoi grandi scrittori (Alvaro, La Cava, Perri, Strati,
Montalto ecc.)
Dopo il 1946 Fàbon comincia
nuovamente a viaggiare per l’Italia. Affresca chiese e dipinge quadri di una segreta
spiritualità, volti di donne misteriose, paesaggi intensi. Con il pennello o
con la spatola imprime i segni distintivi della sua tecnica. Risiede per
qualche tempo a Genova richiamando l’attenzione dei musei europei. Le sue
figure sembrano scolpite tanta è la forza monumentale che possiedono. Sul
“Giornale di Sicilia” del 7 aprile 1948, riferendosi a Fàbon, Vittorio Rossi
sottolinea: “Si sente che nella sua
composizione non ci sono esitazioni, pentimenti, rifacimenti. Tutto è composto
di getto, tutto è spontaneo, tutto è immediato …. dà prova di una sincerità
artistica, di una onestà pittorica molto rari ai tempi che corrono, e di cui
bisogna lodarlo senza riserva”. Il pittore manifesta, difatti,
un’ancestrale sensibilità con la quale comunica il fascino e la durezza della
vita.
Cascata che riproduce "Lo schiccio" di Sant'Agata del Bianco |
Egli “solidifica” le
apparenze visive, tanto che alcune immagini appaiono quasi sospinte fuori dalla
tela. A volte, per scardinare la vecchia tradizione figurativa, effettua delle marcate
“esagerazioni” delle forme ma riesce ugualmente a non tradire l’armonia dell’intricato
gioco di linee, colori e personaggi.
Su “Il Messaggero” del
15 gennaio 1953 in un pezzo a firma di
Enzo Bruzzi si legge: “questo artista,
umile ed onesto, avanza. E’ la sua arte che lo guida per mete sublimi con mano
affettuosa e materna per premiarlo dalle fatiche e dalle pene sofferte negli
alti silenzi dello spirito”. Molti percepiscono nel suo modo di dipingere una
tensione profonda, quasi una “leggenda mistica”.
Dopo la mostra di
Torino del 1954 (Mostra nazionale Ars Plauda) e quella di Bologna dello stesso
anno (Mostra nazionale di Arte Sacra) illustra persino volumi di poesia come
“Il grido dell’uomo del Sud” di G.B. Giordano e “I giochi dell’Anima” di Ivonne
Rossignon.
Per di più, durante un soggiorno a Ravenna, le riviste “Calabria Letteraria”
e “Il Sentimento” pubblicano i versi di Carmela Curulli, la moglie del pittore.
Entrambi sono alla ricerca di un modo essenziale e permanente di rappresentare
ciò che vedono e provano. In un componimento del 1954 dal titolo “Altro cercavo”
Carmela scrive: “Pentita dal volo troppo
alto sarei tornata per essere quieta all’angolo del focolare e al suo tepor
dimenticare il sole: ma più non potevo, avevo cercato altro l’inesistente
impalpabile nulla”.
Intanto, il 23 marzo
del 1954, La Tribuna del Mezzogiorno, in un editoriale polemico nei confronti
dei critici della Biennale di Venezia (colpevoli di sottovalutare i talenti del
sud), menziona Fàbon quale esempio di artista che non ha nulla da invidiare ai maestri
europei. Sempre nel 1954, il pittore viene nominato vice segretario regionale
per la Calabria dal comitato U.S.A.I.B.A (Unione Sindacale Artisti Italiani
Belle Arti) e lavora con il settimanale “Il Mezzogiorno di Reggio”.
Nel settembre del 1955
ad Assisi, dopo aver esposto al Palazzo dell’Arte Sacra in una mostra
internazionale, Fàbon riceve il diploma d’onore per “alti meriti artistici”. In
seguito allestisce le sue opere anche a Genova, Arezzo, Ravenna, Firenze,
Messina nonché in Germania, in Francia, in Svizzera, in Argentina ed al Museum of
Fine Arts di Montreal (1957). Quotidiani e riviste si mostrano attenti verso questo
“pittore mediterraneo”.
Disegno, volto di donna |
Ma è nel gennaio del 1956
che arriva l’effettiva consacrazione, con l’esposizione al Pavone Art Gallery
di New York. Gli americani riconoscono che: “nato nei pressi di Reggio Calabria, è un completo artista ed un
creatore di un originale stile e di un nuovo sistema. Ha una ispirazione
creativa con note malinconiche di musico e di poeta. E’ Domenico Bonfà in arte
Fàbon. Messosi in luce nell’ambiente artistico europeo egli è un conquistatore
di molti elogi e critiche. Orgoglioso e magnifico nella delusione e nella
esaltazione artistica oggi egli viene ad incominciare una nuova era nell’arte
del dipinto”. I giudizi della stampa statunitense sono ripresi assiduamente
dai giornali italiani. L’arte di Fabòn ha ottenuto i meritati riconoscimenti.
A
Roma, nello stesso anno, alla Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea, viene
premiato con la medaglia d’oro. Sono anni intensi, caratterizzati da molti spostamenti
e continui ritorni in Calabria.
Reggio, dopo una faticosa ricostruzione, vive
un periodo di grande vivacità artistica. Fàbon è uno dei suoi indiscussi
protagonisti unitamente allo storico dell’arte Alfonso Frangipane, impegnato nel
recupero socio-culturale della città. Le Biennali D’arte, insieme alle mostre
personali e collettive, diventano punti d’incontro e dibattito con artisti
anche internazionali.
Nel 1958, alla III°
Mostra Nazionale estemporanea di Ravenna, il pittore consegue una medaglia, il
diploma d’onore ed il premio del presidente del concorso. Anche la mostra
personale di Arte Sacra (maggio 1961) tenutasi nel Palazzo dell’Arcivescovado di
Reggio Calabria è un successo. Il Ministro Umberto Tupini, dopo aver visionato
le opere esposte, avrà parole lusinghiere per l’artista.
Nel 1966 Fàbon è
nominato accademico della “Accademia Tiberina” di Roma per “notevoli requisiti
morali, culturali e scientifici”.
Egli ricerca le basi
eterne del reale e del pensiero. Poche volte, difatti, ritrae l’attimo fuggevole.
Il suo occhio non è una lente statica. Certamente conserva la purezza della
sensazione eppure la sua materia non si sfalda, anzi, spesso, si lega a vere e
proprie intuizioni filosofiche. Anche quando, nell’opera “Fragore e silenzio”, riproduce
una cascata di Sant’Agata del Bianco (denominata “Schiccio”) il pittore non
effettua solamente uno studio della natura ma propone, soprattutto, “un’altra
verità”. Un universo inedito che, oggi, quasi nessun calabrese ricorda,
campioni come siamo a farci attrarre da uomini e cose distanti da noi.
Per
quanto riguarda la storia dell’arte, poi, essa è popolata da eccezionali
artisti poco considerati. Illuminante, a proposito, è un commento di Vittorio
Sgarbi nel suo “Discorso sulla pittura da Giotto a Picasso” edito da Rizzoli: “grande come Giotto è un pittore che si
chiama Vitale da Bologna, ma si è cominciato a parlarne negli ultimi
cinquant’anni e quindi Vitale da Bologna ha un ritardo di settecento anni di
comunicazione mancata”. La speranza è che si possa riprendere a parlare di
pittori come Fàbon e del suo discorso interrotto.
Nel 1968, difatti, a
56 anni, l’artista viene colpito da una neoplasia maligna che lo costringerà a
curarsi a Roma e che gli risulterà fatale.
Qualche mese dopo la
sua scomparsa, su Il Giornale d’Italia del 16 novembre 1969, Paolo Borruto
scriverà: “I giudizi, dunque, consacrati
dai critici su tutti gli organi di stampa più importanti, ed in tutto il mondo,
concordano nel lodare la spontaneità, il vigore, la raffinatezza del gusto, l’arte,
le proporzioni, di questo autentico Artista che l’Italia si onora di annoverare
tra i migliori dell’ultimo ‘900. Egli presagì la fine. Ne è testimone la sua
ultima tela che raffigura un volto egizio che appunta lo sguardo profondo,
attonito, su una mummia collocata in una bara. La morte lo colse ancor giovane
il 27 agosto 1969” .
DOMENICO STRANIERI
Ciao Domenico . Hai fatto un lavoro fantastico - Appena posso ti mandero` le foto dei tre quadri che abbiamo noi , io-ida-ines- Quel filmino con lo zio Mimmo l'ho fatto io nel 1966 . Un abbraccio , Vincenzo
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