Dal dibattito sul giornale online LENTE LOCALE
Nel 1976 Norberto
Bobbio pubblicava (Ed. Einaudi) un libro dal titolo: “Quale socialismo?”. Oltre al dibattito che si aprì sul binomio
“socialismo – democrazia” (con Roberto Guiducci, Domenico Settembrini, Claudio
Signorile ed altri), nella parte finale del testo, Bobbio si chiedeva (con
quella sua tendenza a non raccogliere certezze ma a seminare dubbi) se “siamo proprio sicuri d’intendere <<socialismo>> tutti quanti nello
stesso modo”.
Ultimamente, sul
giornale online Lente Locale, si stanno
susseguendo una serie di riflessioni che riprendono il tema del socialismo
italiano e del “vuoto” lasciato dallo sfascio del PSI.
Credo che sia una
questione molto complessa ma provo ugualmente a dare il mio contributo al dibattito.
Rischierei di essere
troppo ripetitivo ricordando il grande valore dell’ideale socialista, le
conquiste sociali e politiche, e la modernità del pensiero riformista (in
Calabria basta leggere qualche articolo di Sisinio Zito) in anni in cui altri partiti
guardavano al futuro (quando lo facevano) con occhi adulterati da notevoli limiti.
Di certo è impossibile
non menzionare Mani Pulite, ovvero un processo che nulla aveva di “storico” ma che
sembrava orientato ad eliminare i dirigenti di alcuni tra i più grandi partiti
italiani, in una nazione che, tra l’altro, non aveva una classe politica di
ricambio.
Non per niente nel
2011, durante la presentazione di un libro, Francesco Saverio Borrelli, capo
del pool Mani Pulite, disse: “Se fossi un uomo pubblico di qualche Paese
asiatico, dove come in Giappone è costume chiedere scusa per i propri sbagli,
vi chiederei scusa: scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la
pena di buttare all'aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale».
Così, oggi, a forza di finte campagne
moralistiche, ci ritroviamo con una corruzione maggiore, con delle figure
istituzionali inventate al momento ed un populismo che si scontra con altro
populismo (in una specie di gara a chi la spara più grossa).
Ma quando un partito
scompare, la colpa non è solo degli altri. Credo che bisogna dirselo con
franchezza reciproca. Ovvero: dopo l’ignobile “persecuzione” che si era venuta
a creare, quasi tutti i politici “sopravvissuti” erano più preoccupati a
riposizionarsi in altre aree che a “restituire l’onore ai socialisti” (per
dirla con Claudio Martelli).
Insomma, la nave è
affondata anche perché dopo la tempesta tutti l’hanno abbandonata seguendo il
motto: “si salvi chi può!”.
In tutto questo, un
ruolo decisivo lo ebbe Giuliano Amato che, ad inizio novembre 1992, fu indicato
da Craxi quale suo successore. Amato, che da Presidente del Consiglio viveva
mesi caratterizzati da enormi difficoltà, rifiutò tale investitura, ed il
Partito, ormai lacerato anche nei rapporti personali e senza un vero leader, si
frantumò.
Ricordo che nel 2005,
da giornalista alle prime armi, curai per qualche tempo una rubrica nella quale
intervistavo ogni settimana un esponente del Nuovo PSI (i socialisti posizionati
a destra) ed uno dello SDI (i socialisti di sinistra). La cosiddetta “base” era
convinta che fosse necessaria una riunificazione delle anime socialiste ponendo
fine ad un’anomalia che esisteva solo in Italia. Ma, nei fatti, l’unità non allettava
né Boselli (che nel 2006 diventerà deputato del partito “La Rosa nel pugno”) né
De Michelis (restio a lasciare “La Casa della Libertà”), ciascuno attento a
preservare la propria posizione di segretario dei due mini-partiti (che in
Calabria, regione con una importante tradizione socialista, riuscivano ancora ad
eleggere consiglieri regionali, deputati e senatori).
Addirittura, dopo il
Congresso del Nuovo PSI, svoltosi a Roma nel 2005, si formarono altri due
raggruppamenti: “Rifondazione Socialista” con segretario Giuseppe Graziani e “I
Socialisti” con segretario Bobo Craxi (che intanto era passato a sinistra
diventando sottosegretario con il governo Prodi).
Diversi nomi e fragili
tentativi di un’improbabile unificazione si avvicendarono almeno fino alle
regionali 2010, anno in cui i “Socialisti Uniti” conclusero accordi sia a
destra che a sinistra.
Ma al di là dei soliti giochi di potere, forse nel 2005 si perse un’opportunità, o forse l’unità era ugualmente destinata a fallire, all’interno di una coalizione di sinistra che considerava “l’aggettivo socialista impronunciabile” .
Oggi, la globalizzazione
ha creato una sorta di riconfigurazione della politica planetaria che, però,
non ha risolto il divario tra paesi poveri e paesi ricchi. Tuttavia, mentre in
passato i grandi movimenti di lotta contro le condizioni sociali imposte dal
capitalismo erano alimentati da un pensiero, spesso da un’utopia, che rappresentava
un futuro da costruire, oggi, soprattutto in Italia, si sa cosa non si vuole ma è quasi impossibile ragionare
su come migliorare l’esistente.
Ecco perché la
domanda iniziale di Bobbio torna qui, alla fine della mia riflessione: Quale
socialismo? A quale tipo di mondo aspiriamo?
Sicuramente,
ancora oggi, esistono gli oppressi, le disuguaglianze, e il senso del diritto è
calpestato dall’ingiustizia. All’interno di un simile scenario, reso più
tragico dalla catastrofe ecologica, sarebbe naturale l’esistenza di un partito
socialista italiano capace di diventare nuovamente “sperimentalismo storico”,
magari partendo dal basso, dalle comunità locali, e dall’eredità di un
patrimonio ideale che non ha perso la sua modernità.
Servirebbe,
però, una fortissima volontà politica, capace di superare il male derivante dal
frazionismo correntizio e dalle nuove forme di “feticismo” (vedi analisi di Marx
nel Capitale) imposte dalla tecnologia e dai grandi imperi economici, che
provano a trasformare i rapporti sociali, privati di sogni e visioni, in “rapporti
sociali tra cose” (trascurando l’ampliamento dei confini della libertà sociale).
Cosa resterà, altrimenti, dei socialisti è difficile dirlo. La speranza è quella di non ritrovarsi a vivere in un mondo simile a quello descritto nel 1908 da Jack London ne “Il Tallone di Ferro”, ovvero una società dominata dalla logica del profitto e governata da un opprimente sistema oligarchico. Anche perché nessun Ernest Everhard (il coraggioso rivoluzionario protagonista del romanzo di London che inspirò al padre di Ernesto Che Guevara il nome del figlio) si intravede tra gli uomini del prossimo futuro.
DOMENICO STRANIERI
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