Dopo la nostra
intervista a Giambattista Scarfone, scrittore detenuto nel carcere di Spoleto,
a cui abbiamo dedicato anche la copertina di ottobre 2015, è nato uno scambio
epistolare tra Domenico Stranieri (autore dell’intervista) e Michael G. Jacob
(che con Daniela Gregorio scrive romanzi noir di fama internazionale). Di seguito, l’ultima lettera arrivata in Calabria, poiché è una
bella testimonianza di cultura e sensibilità.
Caro Domenico,
Grazie per la tua lettera. Ci devi
scusare, ma stavamo in Inghilterra e l’abbiamo letta solo ieri. Nel frattempo ci
è arrivata anche la copia del giornale In
Aspromonte mandato da Giambattista.
Adesso, ti raccontiamo un po’ di cose
che abbiamo imparato come due scrittori che hanno avuto il privilegio (vero) di
entrare in un carcere di massima sicurezza.
Avevamo sentito da due fonti diverse
di Giambattista Scarfone prima di incontrarlo.
La prima, Giovanna Zucconi, allora giornalista
di La Stampa, venuta ad intervistarci
nel 2008. Giovanna ci parlava di una persona nel carcere di massima sicurezza
di Maiano di Spoleto che l’aveva contattata chiedendole consigli riguardo ai
suoi romanzi inediti. Siccome noi abitiamo a Spoleto, la sua ‘ruga’ e la nostra
‘ruga’ stavano molto vicine.
Poi, poco tempo dopo, ci ha
telefonato un insegnante che lavora al carcere, Luciana , dicendo che alcuni
dei suoi allievi avevano letto i nostri romanzi, e ci ha invitato a Maiano per
parlarne con loro. ‘Sarà un’esperienza,’ diceva Luciana, e non aveva torto. Così
ci siamo trovati di fronte ad un gruppo di dieci o dodici persone nella
biblioteca della prigione.
G.Scarfone con Michael G. Jacob nella biblioteca del carcere di Spoleto
Fra loro c’era Giambattista Scarfone.
Siamo stati calorosamente ricevuti, e
l’incontro è stato un vero piacere per noi, e, speriamo, per loro.
In effetti,
è stato solo il primo di una serie di incontri con i ‘ragazzi’ di Maiano. La
loro curiosità cominciava con i nostri libri, ma non finiva lì. Abbiamo
scoperto che molti di loro scrivevano. Alcuni per motivi di studio, ma altri vi
si erano applicati con delle ambizioni ben oltre il semplice desiderio di
tenere un diario o raccontare storie delle loro esistenza. Alcuni avevano
pubblicato libri di fiabe e racconti insieme ai loro insegnanti. Giambattista Scarfone
era uno di loro ma aveva una marcia in più. Aveva già scritto otto o nove
romanzi.
Chi non ha mai provato non può capire
il lavoro che richiede la scrittura di un romanzo di tre, quattro, o
cinquecento pagine. Richiede un’immaginazione, certo, una capacità di creare un
mondo popolato di personaggi dove succedono cose non banali, ma anche la
costanza e il lavoro di molti mesi, o anche anni, davanti ad uno schermo, o una
pagina bianca. Immaginate poi a scrivere 24,000 pagine come ha fatto
Giambattista, otto romanzi lunghi, a coprire tutti quei fogli bianchi con oltre
due milioni quattrocentomila parole! È un impresa immensa. Eppure, ogni
scrittore che ha avuto la fortuna di essere finalmente pubblicato ha dovuto
fare un apprendistato simile. Ha lavorato da solo per anni e anni, imparando i ‘trucchi
del mestiere’, cioè come costruire una storia, come riempirla con personaggi
che sembrano veri, come scrivere i dialoghi, come creare la trama e mantenere lo
suspense, come portare il lettore da un inizio intrigante fino ad una
conclusione dove i nodi si sciolgono e la fine sembra emergere con naturalezza
da quello che l’ha preceduto.
E tutto questo senza nessuna garanzia
che il ‘miracolo’ succederà.
Tutti noi che scriviamo crediamo nel ‘miracolo’
della pubblicazione. Crediamo che prima o poi qualcuno riconoscerà il valore di
quello che ci sentiamo spinti a fare. Quante volte ci siamo chiesti se valesse
la pena o no. Nonostante le lettere di rifiuto, gli editori che ti respingono
con un gentile ‘mi dispiace ma...’ o un silenzio ancora più devastante tanto più
i tempi si allungano. Ma il vero scrittore fa una cosa ogni giorno della sua
vita: si mette giù a scrivere. E così fa Giambattista Scarfone.
I Michael Gregorio, firma che unisce Daniela De Gregorio e Michael G. Jacob, autori noir di fama internazionale
Noi abbiamo avuto la fortuna di
incontrare Giambattista, Carmelo, Francesco e tanti altri a Maiano. Abbiamo
avuto l’opportunità di parlare con loro di racconti e romanzi, i nostri, i loro,
e i lavori di molti altri scrittori. Li abbiamo consigliati, gli abbiamo dato i
‘compiti’ che poi abbiamo letto con attenzione, suggerendo come ampliare o
intensificare quello che avevano da raccontare. Abbiamo anche portato Giovanna
Zucconi a Maiano con noi un giorno, e Scarfone ha avuto l’opportunità di
parlare con lei. Quando RAI 24
ha voluto seguirci per un giorno intero, mandando in
seguito in onda un documentario, abbiamo portato i giornalisti e i cameraman
dentro le mura di Maiano. Abbiamo anche premiato Scarfone al festival di Trevi Noir come miglior scrittore non
pubblicato. Cioè, abbiamo fatto quel poco che potevamo fare.
Quello che racconta Giambattista e
gli altri ragazzi merita attenzione. Richiede lavoro, impegno. Richiede anche
‘esperienza di vita’, e questa l’hanno in abbondanza. L’altra grande cosa che
ha lo scrittore incarcerato è tempo a disposizione. Sembra uno scherzo, ma non
lo è. Scrivere un libro richiede tempo per pensare, leggere e imparare. Tempo per
scrivere, correggere e riscrivere. Molti dei detenuti partecipano a corsi accademici
cercando un modo per impiegare il loro tempo. Tanti ormai si laureano.
Riempiono le lacune lasciate dalla scuola, e poi affrontano studi che forse non
avrebbero mai preso in considerazione. Si dice che la recidività criminale ammonta
a quasi 60%, mentre la percentuale che tornano in galera si abbassa a sotto il
4% fra quelli che riescono ad ottenere una laurea.
Questo è certamente un bene. Ma se invece
di studiare, uno volesse scrivere un romanzo? Non è ugualmente impegnativo,
ugualmente riabilitativo? Non si impara di sé e degli altri? E poi, ad opera
compiuta, invece di un solo di foglio di carta, si hanno in mano cento, mille pagine
dattiloscritte.
L'ultimo libro firmato MICHAEL GREGORIO
Noi crediamo che attività del genere
dovrebbero essere premiate. Uno scrittore che si afferma pubblicando non ricade
nelle vecchie abitudini che lo hanno portato a passare una parte della sua vita
dietro le sbarre. Per aiutarlo, c’è bisogno di comprensione e dedizione. Le
università entrano ormai da anni dentro i centri di reclusione. Ma quanti
scrittore italiani hanno ottenuto il permesso di lavorare liberamente su
tematiche qualsiasi con dei detenuti? Quanti editori hanno potuto spiegare ad
un gruppo di scrittori-prigionieri i segreti di un mestiere riservatissimo che
vorrebbero imparare? E poi, quante case editrici hanno mai varcato i cancelli
delle prigioni italiane spiegando quello che cercano, quello che vogliono,
quello che pubblicano?
Giambattista Scarfone sta facendo il
suo lavoro: scrive.
Noi facciamo quello che possiamo:
consigli e scambi di opinioni.
Quello che manca è l’impegno, da
parte delle autorità, di aprire le porte all’esterno e portare dentro persone che
possano aggiungere le loro conoscenze professionali del mondo dei libri. Senza
editori che leggono i lavori di scrittori come Scarfone, e case editrici che la
pubblicano, si rischia la perdita di un punto di vista del tutto originale.
Il caso dello scrittore statunitense Edward (Ed)
Bunker è illuminante.
Bunker è entrato nel mondo della criminalità fin da ragazzo ed è entrato e uscito varie volte di
galera, accusato di aver commesso crimini come la rapina a mano armata. In
prigione ha imparato a scrivere ed è diventato uno dei maggiori autori
americani di gialli e noir. Non è mai rientrato in prigione. Questo è un fatto.
Scrittori come Giambattista Scarfone possono diventare gli Ed Bunker italiani,
ma hanno bisogno del ‘miracolo.’ Cioè, un editore che creda in lui affinché le
sue storie possano far appello ad un pubblico di lettori che vuole entrare nel mondo
della sua fantasia.
Al sud c'è sempre uno scarto tra ciò che potevamo essere e ciò che siamo diventati. Il resto è un eterno ritorno di discorsi, analisi (laddove chi invoca la "sinergia" tra territori la intende pilotata dal suo territorio e dalla sua testa) e "pensieri ciechi" (magari formulati dai "nordisti").
Così capita che uno scrittore come Saverio Strati, che non riusciva più a pubblicare i suoi libri perché ritenuti “superati”, riesca ancora a dirci molte cose. Le angosce di chi doveva partire ieri, ad esempio, ed aveva “due cuori” (uno che diceva “vai!” e l’altro “che vai a fare?”), sono gli stessi tormenti di oggi.
E poi c’è la regalía di epoca
moderna. Quasi l'obbligo a svolgere gratuitamente un’attività per un
“signorotto locale” sperando che questi, in futuro, si ricordi del lavoro fatto
o, semplicemente, per non inimicarselo rifiutando di “essere a disposizione”.
Succede ancora in tante realtà. La differenza con il passato è quella che
non si va esclusivamente nei campi a zappare, come facevano i personaggi di Strati,
ma il concetto non cambia.
L’autore di Sant’Agata del Bianco scrisse il racconto La regalía nel 1953 e lo dedicò «Alla
memoria di Elio Vittorini». Protagonisti: un padre con una gamba rotta,
impossibilitato a muoversi e a lavorare, ed un figlio che mal sopportava di
avere “la camicia lorda di terra e di sudore”, senza paga, per ingraziarsi il
potente “cavaliere” di turno.
Non me la sentivo di parlare, con la stanchezza che avevo;
perché davvero da più di un mese andavo ad annaspare nelle vigne; e annaspavo
come un dannato, dato che ogni padrone ti scorticava, durante quelle giornate
che ti aveva. Ma quei rimproveri di mio padre davvero mi facevano male.
Per le sue idee, il padre considerava il giovane uno sprovveduto, un
sognatore che non aveva percezione di come andava il mondo.
Tu parli col cuore di chi non ha responsabilità. Se non vai,
che puoi fare più in paese? Che, forse puoi andare a chiedergli olive? E, se
lui non ti dà le olive, con che ti condisci le mani? E un pugno di grano dove
lo semini? Che, forse hai un pezzo di terra da zappare? Non vedi che noi non
abbiamo neppure dove scavarci la fossa? Ragioni con la testa o con i piedi?.
Ma il figlio ribatteva: “Sentitevi onorato di andare a fare il servo (..)
È la più grossa fesseria, questa della regalía.
Noi dobbiamo regalare, noi che siamo poveri? E lui cosa ci regala?”.
Insomma, dove non c’è l'autonomia di scegliere un lavoro non può esserci
libertà. Tuttavia, è evidente che: “Se la gente non va a raccogliergli le
olive, lui (il padrone) non manda sua moglie a stare a culo a ponte sotto gli
olivi; né va lui a dare tre palmi con la zappa, nei campi e nelle vigne. Lui è,
perché lo facciamo noi essere”.
Ecco, i potenti, gli sfruttatori, i mafiosi “sono” perché li facciamo noi
"essere". E con il sudore dei poveri saranno sempre loro i
protagonisti della storia. Quella storia che non ricorderà mai i nomi dei
nostri nonni e dei nostri padri, le loro fatiche.
E non rammenterà nemmeno le nostre abbozzate "prove di esistenza”.
Poiché siamo figli di una debole mitologia contadina, di un fatalismo che ci
esorta ad accontentarci di poco. Quasi che avessimo ancora addosso gli “spiriti
della distruzione” ed i travestimenti delle antiche tragedie greche.
In
carcere si scopre scrittore e ottiene vari riconoscimenti.
Ma
nessuno pubblica i suoi libri
Dal mensile IN ASPROMONTE di Ottobre 2015
A chi lo incontrava negli anni ’90, a Sant’Agata del Bianco, poteva capitare di ragionare con lui del capolavoro di Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine, o di sentirsi dire che la poesia di
Kipling, If (Se..) rappresenta una
guida pratica di vita. Dopodiché entrava nella sua auto, accendeva il sigaro, e
partiva ascoltando Rimmel di De
Gregori o Eskimo di Guccini.
Adesso, da
troppi anni, quel giovane, Giambattista Scarfone, è detenuto nel carcere di
Spoleto. In questo luogo si è scoperto scrittore prolifico ed ha vinto pure qualche premio, tanto che la giornalista Giovanna Zucconi (che collabora con la
Stampa e L’Espresso ed è nota al grande pubblico anche per aver affiancato Alessandro
Baricco nella trasmissione televisiva “Pickwick”)
attraverso un carteggio e qualche visita lo ha incoraggiato “a trovare un
proprio stile e una propria forza espressiva”.
Giambattista Scarfone
Nessun editore, però, si è interessato della sua
produzione letteraria. Noi lo abbiamo intervistato per capire come nasce uno
“scrittore che non ti aspetti” e come i libri possono servire per vincere il
peso di una realtà dolorosa.
Nel
dicembre 2008 sul sito internet di Micheal Gregorio (firma che unisce due
persone:Daniela De GregorioeMichael G. Jacob, autori noir di fama
internazionale) è stato scritto: “Il Premio Michael Gregorio è stato
assegnato a Giambattista Scarfone per
il suo racconto inedito, L’imprevisto.
Si tratta di una storia senza compromessi di un crimine senza compromessi,
scritto con grande abilità, chiarezza e un tocco di umorismo
sarcastico. A nostro parere, merita sicuramente di essere pubblicato! “.
Siamo nel 2015 e la tua opera rimane ancora inedita. Come mai?
Quando ho cominciato a scrivere non ipotizzavo di poter
vincere premi o altro. Credo, come ogni autore, che la necessità che ho
avvertito sia stata quella di raccontare ciò che sentivo dilagare dentro. Io ho
solamente seguito (e seguo) questo impulso. Il luogo in cui mi trovo, se non
danneggia, certamente non aiuta. Il pregiudizio fa il resto. Coloro che, come i
Michael Gregorio, vogliono conoscere realtà anche lontane dal loro vivere,
apprezzano e promuovono i vari percorsi di crescita interiore, proprio perché
nati in un luogo estremo.
Personalmente, conosco poco il mondo dell’editoria
ma, per quel che ho capito, troppo spesso rischiare di investire su un
esordiente non è ritenuto opportuno. Forse anche per
questo ci ritroviamo con delle “aberrazioni” sugli scaffali delle librerie,
magari con testi di autori che hanno partecipato a dei talk show o a qualche
programma demenziale. In concreto, si punta più sulla popolarità del “personaggio
meteora”, sulla sua momentanea notorietà, che non sul valore dell’opera. Cioè
la selezione avviene esattamente al contrario di come si dovrebbe fare. Il mio
racconto è rimasto inedito? Mi gratifica molto averlo scritto.
Sempre
nel 2008, quando hai vinto il Premio Trevi Noir, Daniela De GregorioeMichael G. Jacob si sono recati direttamente
in carcere, a Spoleto, per consegnarti l’importante riconoscimento (il video è
stato proposto da Rai International). Cosa hai provato in quel momento?
In un luogo in cui tutto è precluso è difficile persino immaginare che domani
sarà diverso dall’oggi, perché le radicate abitudini e le rigide regole interne
presentano copie di giornate identiche, come in una sequenza senza fine. La
constatazione di aver “scomodato” persone di cultura per venire a trovarmi mi
ha regalato una grande gioia (c’era anche Sky) perché ho rotto gli schemi. Ho
pensato al riscatto nonché al recupero del tempo perduto che, per quanto
sprecato per futili cose, non è mai perduto davvero.
So
che mentre conducevi una vita “diversa”, prima di finire in carcere, eri
ugualmente attratto dai libri. In quel tempo, hai mai pensato di diventare uno
scrittore?
Mai! Ho odiato i libri di scuola perché mi erano
imposti e pur essendo stato un ottimo studente (prestavo molta attenzione alle
spiegazioni dei professori) da adulto ho amato tutti i libri che ho potuto
scegliere e leggere. Ho sempre avuto una tendenza per i romanzi. Forse perché
mi incuriosiva l’idea di come facesse l’autore a costruire trame impossibili, a
volte conseguenze di un’elaborazione nata per caso. Evidentemente tutto era
scritto nel mio destino ma non lo sapevo.
Quanti
libri hai scritto e a cosa stai lavorando in questo periodo?
Se ricordi bene, a dicembre del 2012, ti avevo
spedito una lettera in cui ti dicevo di avere iniziato a scrivere il 32° libro
(una saga familiare ambientata tra la Calabria e la Sicilia). Se hai conservato
la lettera lo riscontrerai. Quel libro, pur essendo molto voluminoso, è
diventato il primo di una tetralogia. Da una decina di
giorni ho iniziato il quarto e ultimo romanzo che chiuderà la saga e la storia.
Praticamente sto scrivendo il 35° libro.
Dove
trovi gli spunti, i personaggi e le trame delle tue storie?
Non avrei mai creduto di poter scrivere un libro.
Quando ci sono riuscito ho provato un’emozione fortissima perché, avendo letto
molto, capivo l’importanza dell’impresa. Credo che gran merito vada alla
memoria (ricordo anche ciò che non vorrei) e alle mie esperienze di vita. E’ come se avessi vissuto più esistenze e tutte hanno avuto la
loro importanza. Non a caso chi legge le mie storie si accorge che
descrivo contesti reali, proprio perché sono narrate dall’interno. Le trame dei
miei libri mantengono tre fondamentali principi: Memoria, Amicizia e Tradimento.
Di personaggi a cui assegnare un ruolo, poi, ne ho conosciuti così tanti che,
nonostante la mia fertile fantasia, con ogni probabilità non riuscirò mai ad
immortalarli tutti.
Nel
film Bronx, del 1993, diretto e
interpretato da Robert De Niro, il padre del giovane protagonista, che
frequentava un potente boss (senza curarsi del divieto dei genitori), ammoniva il
figlio dicendo: “Ricordati, la cosa più triste
nella vita è iltalento sprecato”.
Meditando sulla tua vita, sugli anni di reclusione e sul tuo talento di
scrittore, ti riconosci in questo pensiero?
Credo che non esista un luogo come il carcere per
prendere coscienza di quanto lacerante possa essere constatare di aver visto
svanire persino l’illusione di avere delle capacità. Il carcere è una fucina di reduci con
esistenze fallimentari e vedere giovani pieni di vita spegnersi dietro
inclinazioni moleste, proprio perché non hanno mai scoperto di avere un
talento, è davvero un’umiliazione. Ma l’aspetto peggiore è che le potenzialità
individuali perse per strada non hanno contribuito a migliorare il contesto
collettivo, la società. E’ vero, il talento sprecato è
quanto di peggio possa capitare. Io ho scoperto in carcere le mie qualità e ho cercato
di trasformare il disagio in risorsa. Non fossi stato qui non avrei mai
scritto nulla. Che il carcere mi abbia dato l’opportunità di riscattare il mio
passato mi intristisce, sebbene sono consapevole che, se non qui, dove avrei
potuto riflettere così a lungo e giungere a queste conclusioni?
Il libro per bambini scritto dai detenuti del carcere di Spoleto
Tu
scrivi anche poesie, canzoni ed hai interpretato insieme ad altri detenuti il
brano Give
me another chance,3° premio ex-aequo Raccorti Sociali IV edizione.
Possiamo dire che la parola ha la forza di vincere, o perlomeno combattere, il
dolore e la disperazione?
Le mie, più che poesie, le
considero filastrocche perché, quando il caso mi ha spinto a scriverle, avevano
uno scopo didattico, tanto che sono finite in un libro per bambini (Raccontami la vita) elaborato e
illustrato da un gruppo di detenuti col pallino della creatività. Gli utili
sono stati devoluti in beneficenza. Se non ricordo male credo di avere mandato
uno a tuo figlio. La canzone da te citata, invece, era attinente alla nostra
condizione (benché un’altra opportunità bisogna darla a tutti). L’anno scorso,
poi, mi sono piazzato terzo al Premio
Lunezia con una lirica su un tema tristemente attuale: la droga. La parola
ha cambiato il mondo e chi confida nella sua forza non ricorrerà mai ad altri
mezzi per redimere qualsiasi disputa. Anzi, farà di tutto affinché ognuno possa
dire ciò che pensa. Il dolore è personale e intimo, ciò nonostante una parola
detta al momento giusto può far nascere l’aspettativa che ci sia sempre una
speranza. Uno scrittore vive di parole, pensa alle scene e, inevitabilmente, ai
dialoghi. In carcere ci sono molte ragioni per cadere in sconforti di varia
natura e, quando al limite della disperazione non resta altro che Dio, ci si
affida alle parole per essere ascoltati, capiti. La parola apre nuovi
orizzonti: più se ne conoscono e meno afflitta sarà la nostra esistenza.
Come
immagini i giorni che seguiranno il tuo primo momento di libertà?
Ho saputo di gente che, libera dopo una lunga
detenzione, giunta davanti alla porta è tornata indietro. Mi auguro non mi
succeda nulla di simile. Scherzi a parte, dopo una parentesi così lunga non è
facile fare previsioni. Ma per quanto immagini di non trovare il mondo che ho
lasciato, sono sicuro che mi saprò adattare. I giorni dopo la scarcerazione
saranno una costante emozione perché mi confronterò con una realtà nuova,
sicuramente migliore di quella che mi lascio alle spalle. I miei nipoti, per
esempio, non mi hanno mai visto fuori da queste mura, né io ho potuto mai fare
una passeggiata con loro. Saranno queste prove a fare la differenza. Anche per
loro. Non vedo altro futuro che non sia nei libri, quindi continuerò a scrivere
e, chissà, magari riuscirò anche a pubblicare.
Come si diventa
“altro” rispetto a ciò che si è? O, ripensando ad un’espressione di Nietzsche,
“come si diventa ciò che si è”? Sono interrogativi che hanno il profilo di dilemmi
filosofici, eppure pongono delle domande alle quali, a volte, dobbiamo provare
a rispondere. Quando Giambattista Scarfone mi ha spedito un suo libro, per
sapere cosa ne pensavo, ho subito meditato sulla sua condizione: era sospeso
dalla realtà, adesso, e doveva inventarsi un modo per non ammattire.
Che un detenuto intelligente
come Giambattista avrebbe trovato “riparo” nei libri non era cosa difficile da
capire. Però non immaginavo che quel primo testo che mi aveva mandato, e che
lui aveva titolato “Il sole di Lara”,
potesse avere la struttura, la forza ed il linguaggio di un libro vero. Ed
invece era così.
Era l’inizio di una
metamorfosi, di una nuova presa di coscienza. Scenari, luoghi e personaggi venivano interiorizzati, come mai prima, e delineati
su fogli di carta, nel vuoto di una cella. Scatta sempre qualcosa di indefinibile che spinge un
detenuto a scrivere per resistere al tempo, anziché giocare a bocce, guardare la tv o a fare
altro. Ovviamente, se analizziamo il passato, sono tante le grandi opere ideate
nelle prigioni del mondo. Basti pensare ad Antonio Gramsci oppure ad Oscar
Wilde, senza dimenticare che, nel prologo del Don Chisciotte, Cervantes spiegava
che il suo capolavoro “fu generato
in una carcere, ove ogni disagio domina, ed ove ha propria sede ogni sorta di
malinconioso rumore”. Lo stesso Dostoevskij riconosceva di aver imparato molto
dai lavori forzati. Ma stiamo parlando di personaggi che erano già dei
letterati prima di essere reclusi. Più difficile, invece, è scoprirsi
scrittori, in un preciso momento, senza mai avere elaborato un solo rigo in
tutta la vita precedente.
Michael G. Jacob (Gregorio) e G. Scarfone nella biblioteca del carcere di Spoleto (2008)
Come si evince
dall’intervista a Giambattista Scarfone, che intanto è impegnato a scrivere il
suo 35° libro, forse ognuno ha un talento che deve provare a trovare. A volte tale
“dono” si svela nei momenti e nei luoghi più impensabili, ma c’è pure chi non
riuscirà mai a trovarlo e questa “è la cosa più triste nella vita”.
Di certo, per un
editore, è più facile pubblicare il libro di Fabrizio Corona (magari scritto da
un’altra persona) che quello di un detenuto che attraverso un percorso
complesso ma veramente formativo arriva a produrre un romanzo. E’ come se il
vuoto di un luogo diventasse vuoto dell’anima, e allora ci vuole forza e
abilità per insorgere, ripensarsi uomo, e affinare la tecnica giusta per riempire
quel vuoto di parole.
In Giambattista è stato come aprire una diga. Anni di
vita accumulati, mai detti, si sono riversati nei suoi libri. E tutto questo,
in un certo senso, diventa un lavoro. Perché bisogna sedersi ogni giorno e
chinarsi su se stessi per entrare nelle storie. Non c’è un viaggio, un
incontro, un evento che possa ispirare qualcosa. Il cammino è solo quello della
mente.
Anche quando sono
arrivati i riconoscimenti pubblici, come la vittoria del Trevi Noir, la rassegna libraria che nel 2008
anticipava Umbrialibri, Giambattista
era assente. Tanto che la giornalista Giovanna Zucconi dovette esordire così: “questa
premiazione ha la struttura di un noir, nel senso che c’è un premiato che non è
qui”.
Non era stato possibile ritirare il riconoscimento, ma Giambattista
Scarfone, da quel momento, divenne un uomo meno segregato, nel senso che
riusciva a trovare nei libri la sua libertà. Malgrado gli mancasse tutto.
“I miei nipoti, per esempio, non mi hanno mai visto fuori da queste mura - mi dice pensando al futuro - né io ho potuto
mai fare una passeggiata con loro. Saranno queste prove a fare la differenza”.
Adesso, dopo tanti
anni, la possibilità che un editore si occupi di lui gli appare un miraggio.
Eppure Giambattista continua il suo lavoro, e scrive, con la fiducia
incrollabile in ciò che fa.
La domanda iniziale, comunque, resta: quando un uomo
diventa scrittore, è un uomo cambiato o è solamente diventato ciò che doveva
essere?
A Caraffa del Bianco l'incontro tra un medico ungherese e....
Dal mensile IN ASPROMONTE di settembre 2015
Il 15
marzo 1980, per qualche minuto, in Brasile, una donna pensò di intraprendere un
lungo viaggio verso l’Italia, precisamente in Calabria. Quel giorno era morto
suo padre, Andrea Fenyves, un medico che dal febbraio 1930, per alcuni anni, aveva
lavorato in un paese aspromontano, Caraffa del Bianco, dove, ancora oggi, viene
ricordato come “l’ungherese”.
Il
dott. Fenyves, difatti, era nato a Budapest il 13 giugno 1904, in una famiglia
di origini ebraiche. Per questa sua discendenza, pur essendosi convertito al
cattolicesimo, nel giugno del 1940 subì la triste disavventura di essere rinchiuso nel campo di concentramento di Notaresco
(TE). Era il n. 129 della lista degli ebrei “apolidi”. Venne catturato a Clana, vicino Fiume (oggi Rijeka, Croazia), dove si era trasferito perché in Calabria non percepiva
più lo stipendio (probabilmente a causa di un complotto ordito da alcuni
signorotti locali). Liberato nel gennaio del 1941, grazie all’intercessione di
Pio XII, Andrea Fenyves emigrò definitivamente in Brasile, a San Paolo.
Eppure, ai figli ed ai nipoti, non ha mai smesso di riportare aneddoti
riguardanti la sua esperienza in Calabria: dall’amicizia con Francesco Rossi,
di Sant’Agata del Bianco, alle chiacchierate con il podestà di Caraffa.
Andrea Fenyves e Francesco Rossi a Sant'Agata del Bianco (anni '30)
E tuttora molti anziani
hanno presente la figura del medico che, proprio a Caraffa, ricevette la cittadinanza onoraria italiana da parte del regime
fascista per aver guarito numerosi abitanti colpiti da una malattia sconosciuta
(la Leishmaniosi umana).
Il prof. Carlo Galletta, ad esempio, con lucidità e affetto, ne descrive
l’essenza umana e la specificità professionale, ricordando quando, da bravo
chimico, si recava dal farmacista Ruffo per elaborare le dosi esatte di qualche
medicinale.
Inês con il prof. Galletta (luglio 2014)
Per tutti, quindi, il dott. Fenyves era l’uomo della provvidenza, capace di
curare ferite e malattie, sempre gentile e disponibile, così simile, in un
certo senso, al Carlo Levi di Cristo si è
fermato ad Eboli (anch’egli arrivato da lontano nel cuore di un’isolata
società contadina).
Pure i
figli del medico ungherese, Magda e Alessandro, nasceranno a Caraffa del
Bianco, laddove, nel 2013, dopo 80 anni, Magda ritornerà per cercare le tracce
del suo passato. Un anno dopo (luglio 2014) visiterà la Calabria anche la
figlia di Magda, Inês, quasi a
testimonianza del rapporto profondo che lega questa famiglia alla nostra terra. Sono
tante, difatti, le storie narrate dal nonno a Inês. Tra queste, quella del suo arrivo nella casa di Caraffa, di
fianco la chiesa di San Giuseppe.
Il
dott. Fenyves raccontava di essere entrato nella camera, che poi sarebbe
diventato il suo studio, e di aver trovato una persona piegata sulla scrivania,
con la mani poggiate ai lati della testa come per evitare che cadesse.
Dopo
la sorpresa iniziale, l’ignoto ospite disse al medico di non temere: egli frequentava
abitualmente quella casa prima del suo arrivo, comunque, ora, sarebbe andato
via.
La circostanza,
quasi da situazione teatrale, incuriosì il dott. Fenyves che iniziò a chiedere alla
gente chi fosse quel bizzarro personaggio.
Magda Fenyves nella "sua" casa di Caraffa del Bianco
Ma, quando
descriveva le sembianze fisiche dell’uomo, tutti rispondevano alla stessa
maniera: “si tratta del cav. Pietro Paolo Mezzatesta, morto qualche anno
addietro, il 10 novembre 1927. E’ stato il primo podestà del paese e sindaco
varie volte a partire dal 1886. E’ capitato pure ad altri di incontrarlo. Però
è un fantasma buono”.
Mai,
in paese, si era parlato con tanta serenità di uno spettro, come se fosse
qualcosa di normale, una certezza collettiva, un’altra condizione dell’esistere.
Tuttavia
c’era una verità, un segreto, che bloccava ancora il cav. Pietro Paolo
Mezzatesta sulla terra, tra i viventi, e che lo faceva penare come alcune anime
descritte da Dante.
Un
segreto che, una notte di pioggia, il fantasma svelò solamente al dott. Fenyves
prima di congedarsi da lui e scomparire per sempre.
Non sappiamo se il medico ungherese abbia mai rivelato a
qualcuno le parole di quell’ombra amica (di cui gli anziani rammentano la
leggenda, coscienti che, per qualche motivo, adesso non c’è più).
Ma, di sicuro, Andrea Fenyves è riuscito a tratteggiare nella
mente dei suoi familiari le immagini di un luogo ove spesso agiscono forze più
grandi e forti degli uomini; senza dimenticare quella geografia poetica e quel dolore
umano che, prima di lasciare Caraffa, egli seppe caricare nel suo cuore e portare
con sé nel lungo viaggio della vita.
A Casignana sono ancora
fruibili le acque termali dei Romani. Ma nessuno lo sa!
Dal mensile IN ASPROMONTE di Agosto 2015
Nelle sue Memorie (1856), l’arciprete Vincenzo Tedesco scrive: “In distanza di
qualche miglio da Casignana nella contrada Favate, in terreno calcare vi è una
sorgente copiosa di acqua minerale, che a mia richiesta analizzata dai fratelli
farmacisti D. Biagio e D. Giuseppe Ielasi [...]. Tale acqua sarebbe utile alla
cura di varie malattie, e però si dovrebbe ben condizionare, per renderla
idonea all’uso medico”.
A dire il vero contadini e
pastori, in passato, si sono
regolarmente serviti degli effetti benefici dei fanghi che, in modo naturale,
hanno origine in questa località. E non è difficile immaginare che le acque
termali siano state utilizzate soprattutto dai Romani, vista anche la breve
distanza che intercorre tra l’area di Favate e la Villa romana di contrada Palazzi. Anzi, molti agricoltori raccontano di aver involontariamente
distrutto, durante i lavori nei campi, dei tubuli di terracotta che erano
orientati in direzione della Villa, verso il mare e lungo il pendio della
collina.
Negli anni ‘60 e ‘70, comunque, numerose famiglie costruivano
delle “logge” di canne e felci per dimorare vicino alla fonte termale di
Casignana e, per qualche giorno, curavano vari disturbi legati a problemi
reumatici. Insomma, da sempre, i fanghi delle Favate sono salutari per il
corpo.
Anche un medico di Caraffa del Bianco che risiede al
Nord,ma ogni estate torna
in Calabria, non ha dubbi riguardo le capacità terapeutiche della sorgente.
Pertanto, con alcuni amici, condivide un itinerario fisso: di mattina si
ritrovano tutti a Capo Bruzzano, davanti alla scogliera, in una spiaggia che
può competere per bellezza con qualunque posto del Mediterraneo. Pomeriggio,
invece, trascorrono alcune ore presso le acque termali di Casignana. Costo
della vacanza: completamente gratis.
Pure io, a luglio 2014, mi sono recato
alle Favate in compagnia di questo medico che, dopo essersi spalmato il corpo
di materia argillosa (aspettando che si consolidasse prima di iniziare la sua
azione antinfiammatoria) ironicamente mi raccomandava: «Non scrivere mai di
questo luogo, non pubblicizzarlo mai, non sarebbe bello attendere in fila per
fare i fanghi. Godiamoci questo paradiso da soli».
Era un modo stravagante per dire che posti unici, che altri popoli avrebbero utilizzato bene, qui, nel
migliore dei casi, vengono abbandonati. Perfino in un momento in cui accrescono
le inefficienze del sistema statale e ovunque si spinge per l’intervento dei
privati, in questo sito (che dista qualche chilometro dalla Villa romana e
qualche centinaio di metri dall’Albergo diffuso del Borgo antico di Casignana)
non c’è un progetto, non ci sono società, cooperative o imprenditori
interessati a realizzare una struttura moderna e confortevole. Ecco perché le
acque termali, come altre aree, rivelano le opportunità di un turismo che non
c’è.
La colpa? Di tutti.Chiaramente il ruolo dei privati andrebbe costruito
partendo da una buona politica, ma quasi nessuno riesce più a protestare,
ideare o immaginare qualcosa. Nei posti dove la storia non esiste hanno
inventato i theme park, ovvero vengono creati dal nulla un monumento, un
villaggio, un percorso o un affascinante scenario antico. Noi siamo impegnati
nel lavoro opposto, cioè a distruggere o rovinare, dimenticando non solo il passato
ma anche il futuro.
Tuttavia, nelle vicinanze delle acque di Favate,che probabilmente appartengono alla stessa faglia che
caratterizza le terme di Antonimina, c’è una realtà sorprendente.
Ma non
abbiamo più occhi per le colline di argilla bianca dove si produce il vino
greco, per il mare che un Hemingway o un Conrad avrebbero narrato traendo
chissà quali insegnamenti di vita, per le due fiumare che abbracciano un
paesaggio che gli dei ci avevano assegnato senza rovine, e nemmeno per
l’Aspromonte a cui ci legano i segni visibili ed invisibili dei nostri
antenati. Siamo assuefatti a tutto, persino a non considerare il turismo.
Ecco, adesso con questo articolo ho tradito la fiducia
del mio amico medicoche,
quando arriverà in estate, per qualche tempo, di sicuro non mi porterà più con
lui. Poi scoprirà che ancora per molti anni potrà continuare ad andare alle
Favate senza incontrare troppa gente, ed allora si farà una bella risata e
intenderà che, per cambiare le cose del mondo, scrivere e raccontare, certe
volte, non basta.
Arrivava dal Canada,
Carmela Curulli. In quella terra lontana aveva perso il padre, e sulla nave per
l’Italia, uguale a quelle che vengono riproposte in tanti film, aveva esalato
gli ultimi respiri pure la madre. Erano gli anni ’30 del Novecento, la ragazza
era nata a Montreal nel 1918 ed in quel viaggio disperato aveva pensieri che si
confondevano con la salinità dell’orizzonte.
Perché in mare aperto è
impossibile non guardare l’orizzonte senza collegarlo, in un certo modo, al
proprio futuro, alle proprie domande e angosce. Nel porto di Palermo la
attendeva un giovane pittore, Domenico Bonfà (che più tardi anagrammerà il suo
cognome in Fàbon). Domenico, nato a Sant’Agata del Bianco (RC) nel 1912, era
apprendista in una bottega d’arte a Catania e non conosceva l’aspetto della
ragazza che, tra l’altro, era una sua parente.
Non sappiamo
esattamente come andarono le cose, non sappiamo se si riconobbero subito né
cosa si dissero, ma, poco tempo dopo, i due si innamorarono e si sposarono
proprio a Sant’Agata nel 1933.
Esiste ancora una foto di
quelle nozze. E’ stata conservata da Alba Dieni, una pittrice straordinaria
(figlia di Giuseppe Dieni, autore di Dove
nacque Pitagora?, Frama Sud 1976), che ammirava molto la figura artistica
di Fàbon.
Dopo il matrimonio,
Carmela, che aveva frequentato delle scuole private in Canada, iniziò a leggere
con passione tutto ciò che riusciva a trovare, scriveva versi, osservava il marito
che disegnava forme misteriose e paesaggi mediterranei.
Carmela Curulli
Dopo qualche anno di
permanenza a Sant’Agata del Bianco, dove il padre di Fàbon gestiva una
falegnameria con l’eleganza di uno scultore rinascimentale, i due si
trasferirono a Reggio Calabria.
Ma nel 1942 arriverà la chiamata alle armi e Domenico(ormai
denominato da tutti, in paese, “u pitturi”) sperimenterà la vita da prigioniero aTobruch, in Libia. Carmela vivrà nella speranza quotidiana della
liberazione del marito, temendo per la sua salute. Continuerà i suoi studi
a casa, da autodidatta, ed intanto, senza nemmeno saperlo, diventava poetessa.
Ecco come viene menzionata nel volume “Due
più due fa cinque” (L’Avamposto, 1986): “Donna dal portamento distinto,
quasi aristocratico, ma immune da tendenze elitarie, Carmela Curulli, pur non
sorretta da studi regolari, è riuscita ugualmente ad impadronirsi della lingua.
E spinta del desiderio della parola scritta ha cercato di dare forma ai suoi
sentimenti. Nei suoi versi troviamo una sofferenza quasi sempre soffocata dalla
quotidianità, dalle ristrettezze ambientali. Ed anche la coscienza della
brevità del sogno”.
Fàbon rientrerà dalla Libia
nel 1946 e la giovane moglie, che lo aveva atteso come una Penelope moderna,
non lo abbandonerà più. I due affronteranno ogni viaggio, ogni difficoltà,
insieme. Carmela seguirà il marito in giro per l’Italia, in Canada, negli Stati
Uniti. Le due vite, inseparabili, saranno sempre volte alla difesa della loro
arte.
Nel periodo di soggiorno a Ravenna (1954-55), Carmela (che firmerà sempre
i suoi lavori: Carmela Curulli Fàbon) diventerà caporedattore della rivista “Il
Sentimento”. Le sue poesie saranno pubblicate anche da altri periodici, come
“Calabria letteraria”.
Domenico Bonfà, in arte FÁBON
Sono tempi difficili,
che questi artisti, grandi e semplici nello stesso tempo, vivranno adattandosi
alle tante geografie del mondo. “Siamo come coriandoli, che un’alta mano sparge
sulla terra nell’ebbrezza serale..” scriverà Carmela nell’incipit di una poesia
del 1954.
Secondo i figli di Fàbon il padre avrebbe probabilmente abbandonato il
suo impegno di pittore, sconfitto dalle difficoltà, se non avesse avuto al suo
fianco una donna che aveva compreso che egli poteva essere unicamente quello,
destinato a vivere solo all’interno della sfera della sua sensibilità. E quando
ai vari riconoscimenti si alternavano i momenti di precarietà, quando
non era possibile comprare nemmeno una tela o ricavare l’esattezza di un colore,
l’unione di queste due persone non smarriva mai la loro forza, la loro verità
da salvare.
Basta immaginarla la
vita di un pittore ed una poetessa nel contesto storico calabrese di quegli
anni, nella nostra terra senza memoria, dove l’esistenza di un artista non può
che essere “tragica”.
Non so se esistano
intellettuali in Calabria; ho imparato, però, che non ci sono politici. Non si spiegherebbe altrimenti l’oblio di tante figure della nostra cultura,
completamente cancellate. Non si comprenderebbe perché da più di 30 anni
non viene allestita una mostra con le opere di Fàbon.
Il 27 agosto del 1969,
il pittore, vinto da un male incurabile, si spense a Roma, quasi certamente
guardando la moglie con quegli occhi che lo scrittore Giuseppe Melina descriveva
come “un guizzo” che “se si accentra su un foglio di carta, lo brucia forse.”
L’anima di lei, come
era naturale, cessò di vivere in quel preciso giorno. E poco importa se
l’anagrafe ci ricorda che Carmela Curulli morì nel 1974.
Per una poetessa ed un
pittore anche l’ultimo viaggio, quello più misterioso, non può che essere affrontato
insieme.
DOMENICO
STRANIERI
Una poesia di Carmela Curulli pubblicata sulla rivista IL SENTIMENTO