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domenica 6 dicembre 2020

PA...E' MORTO MARADONA

Il racconto privato della magia del calcio

Tra i 12 e i 13 anni, frequentavo la scuola media a Saronno, in provincia di Varese. Era il 1990 e ancora passavano i treni a lunga percorrenza dalla stazione di Bianco e dalla Locride. Quando aspettavamo il convoglio che doveva portarci a Milano, e che appariva lunghissimo rispetto alle misure che eravamo abituati a veder sfrecciare lungo la costa, si assisteva sempre alla solita scena, coraggiosa e incosciente, di persone che si aggrappavano agli sportelli del treno in corsa per occupare una cabina prima degli altri (“gli altri” erano coloro che salivano normalmente, quando il treno si fermava).  

Il rischio assicurava un posto comodo ai propri cari. Chi era meno scaltro e meno acrobatico, invece, sostava nel corridoio per tutta la durata del viaggio. A dire il vero c’era sempre qualche uomo che faceva sedere le donne rimaste all’impiedi e, nel tragitto che sembrava interminabile, io leggevo  l’Intrepido o qualche altra rivista che oggi non esiste più.

Arrivato in Lombardia, per un ragazzo abituato a correre libero, in un paese posto su una di quelle colline del Sud Italia che si elevano davanti al mare, i pomeriggi passati al sesto piano di un anonimo condominio sembravano (e lo erano) di una noia ineguagliabile. Cercavo di inventarmi qualcosa, una formazione della Juve (avevamo, ahinoi, Oleksandr Zavarov con il numero 10) o della nazionale italiana, prefigurando le “notti magiche” che avremmo vissuto in estate.

Ad aprile del 1990, quasi per gioco, decisi di inviare una delle squadre che immaginavo proprio al settimanale Intrepido. La mia lettera fu pubblicata il 24 aprile del 1990, e sulla copertina della rivista c’era una foto di Maradona. L’articolo, che raccontava un Maradona “ritrovato” che puntava a vincere scudetto e mondiale, era a firma di Massimo Gramellini (oggi editorialista del Corriere della Sera).

L'Intrepido del 26.04.1990



Malgrado io fossi juventino, adoravo il campione del Napoli. Quando giocava rimanevo folgorato, avvertivo la trasformazione di ogni peso in leggerezza, o in grazia, come ben descrive Alessandro D’Avenia in un articolo dal titolo “Il bandito e il campione” del 30 novembre 2020: “Un corpo che è insieme di carne e, in qualche modo, di luce, che poi è la struttura stessa dell’universo...".

Per qualche decennio, dimenticai quell’Intrepido, che però conservo ancora, ma quando dovetti far cogliere esattamente a mio figlio la magia del calcio gli raccontai di Maradona. Gli feci vedere i filmati dei palleggi, i goal, gli spiegai cosa significhi giocare alla Bombonera (lo stadio del Boca Juniors) e perché Maradona scelse di non vestire la maglia del River Plate (società più ricca rispetto a quella rivale del Boca). E, infine, gli parlai dei Mondiali, della partita contro l’Inghilterra, e di cosa succedeva a Napoli quando giocava Maradona.

Mio figlio, non potendo tifare per Diego, trasferì la sua passione su Messi e l’Argentina…fino al 25 novembre 2020, giorno in cui mi ha inviato un sms: “Pa…è morto Maradona”.



Proprio lui, il bambino che, con la sua innocente disposizione del cuore, ascoltava le mie storie, e proprio a 12 anni (la mia stessa età tra il 1989/90, quando scrivevo formazioni della Juve sognando di contrastare lo strapotere del Napoli e del Milan).

Il piccolo Giuseppe Stranieri nel 2014
con la maglia dell'Argentina

Mi invase una malinconia opaca, come se con Maradona se ne andassero via tanti frammenti di passato.

Non ho mai giudicato l’uomo, soprattutto perché egli stesso sapeva di sbagliare e lo diceva pure. In fondo, nella tragedia della vita, molti grandi artisti brillano di una luce nuova, hanno un loro lato epico (specialmente quando scelgono la difesa naturale dei più deboli), e alla fine si autodistruggono.

Ha ragione Mario Sconcerti che, in uno dei suoi libri dedicati al calcio, spiega chiaramente: “Maradona non è mai stato un equivoco. Ha vissuto da eroe, solo in mezzo agli eccessi. Venale, generoso, romantico, assolutista, senza un dubbio veramente morale. Un uomo discutibile, come tutti gli eroi. Ma dovendo, per fortuna, giudicare solo il calciatore, non c’è dubbio sia stato il migliore”.

Ecco, Maradona è stato semplicemente il migliore. Tutto il resto, tra qualche anno, non interesserà più alla storia del mondo.


DOMENICO STRANIERI

domenica 13 settembre 2020

DOMENICO STRANIERI E LE STRATIFICAZIONI DELLA NOSTRA CULTURA

   DAL SETTIMANALE RIVIERA DEL 02.08.2020

Sant’Agata del Bianco, oggi, è un paese molto diverso da quello che il sindaco Domenico Stranieri ha trovato in occasione del proprio insediamento, quattro anni fa. Lo abbiamo intervistato per cercare di capire quale sia la matrice di questo cambiamento e quale futuro attenda il centro, che da oggi pomeriggio sarà teatro della nuova edizione del Festival “Stratificazioni”.


Sei riuscito a stravolgere una comunità normale trasformandola in un centro di cultura per certi aspetti avanzato. Quali sono i vantaggi?
La dimensione culturale è determinante per la qualità della vita e, in altre realtà, ha un posto importante nelle politiche pubbliche e nelle strategie aziendali. Noi abbiamo provato a raccontare il nostro territorio, diventando non solo dei conoscitori, ma anche dei sostenitori delle nostre bellezze artistiche e ambientali. Bisogna diventare attenti osservatori, avere la capacità di studiare cosa si può fare con tutto ciò che si possiede (e non è poco), e poi farlo per davvero.

Esiste una parola, un imperativo da seguire per superare le difficoltà?
La parola è: oltrepassare. Quando abbiamo pensato al Festival “Stratificazioni”, ai murales, ai musei, sapevamo di dover affrontare l’avanzata di un deterioramento che aveva varie forme (estetiche, morali e sociali). Ma non potevamo fermarci davanti alle difficoltà, all’indifferenza o alle critiche di chi non ha mai fatto nulla per la comunità. “Oltrepassare” ha significato riconoscere un punto di partenza fatto di cultura, memoria storica, identità, e renderlo “carico” di futuro.

Cos’è il Museo delle cose perdute?
È un luogo molto particolare, nel cuore del Borgo, davanti la piazzetta di Tibi e Tascia. È stato ideato dall’artista Antonio Scarfone, che ha ritrovato ciò che gli altri avevano perduto. È un piccolo universo all’interno del quale non si ripristina soltanto il passato, conservando gli elementi originali della nostra identità, ma è la metafora di come si combatte la “sottocultura della distruzione” con la cultura dell’impegno, dell’arte e della consapevolezza.

Il Festival di musica e letteratura “Stratificazioni” ormai è una bella realtà della nostra regione. Anche quest’anno la Regione Calabria ha dato un punteggio alto al vostro progetto.
All’inizio il Festival è nato senza alcun tipo di finanziamento. Ragionavamo in tempi artistici e non economici. L’idea è nata in montagna, insieme a Mimmo Catanzariti, Antonella Italiano ed Ettore Castagna (che ha concepito il nome). Ricordo che Gioacchino Criaco ha chiamato molti amici chiedendo di sostenere il progetto anche gratuitamente, poiché non bisognava arrendersi. Anche in questo caso, insieme a tanta gente, abbiamo oltrepassato un’immobilità e una provvisorietà che anche Corrado Alvaro mal sopportava (in Calabria tutto accade lentamente o non accade mai… tutto si può aspettare all’infinito).

Cosa farete quest’anno per ricordare lo scrittore Saverio Strati?
Il programma del Festival richiamerà molti temi stratiani. E poi l’intera facciata della casa di Strati,  nel borgo, diventerà un unico grande murale dedicato al nostro scrittore.

Quale è l’argomento stratiano che più ti piace?
Probabilmente Strati proietta in molti personaggi i suoi tormenti. La sua letteratura è segnata da fughe, crisi e angosce. Mi piace leggere il modo in cui Strati descrive il carattere di quei giovani che non volevano assomigliare ai loro padri, ma avevano ansia di conoscenza e di rinnovamento, una insospettabile apertura verso nuove idee.

Stratificazioni riparte proprio oggi, domenica 2 agosto alle 18:30.
Si, ci sarà un suggestivo spettacolo tra le rocce della nostra montagna, a Campolico. È il racconto di un viaggio, del maestro Nour Eddine Fatty, un topos letterario che segna la storia dell’uomo dai tempi antichi fino ai giorni nostri.

Ci sarà anche qualcosa di inatteso nella vostra estate?
Vogliamo potenziare la “Via delle porte pinte" e ci sarà l’installazione di una bellissima opera nel cosiddetto “punto zero” del paese, ovvero il luogo dal quale, secondo la leggenda, iniziò la fondazione di Sant’Agata. Ma sarà una sorpresa.

Chiudiamo con una tua riflessione di qualche tempo fa dal titolo “La leggibilità della Locride”. Molti hanno capito, altri no. Cosa volevi intendere?
Provo a ripetere una sola frase che, forse, racchiude il senso di tutto il ragionamento: “la rivoluzione, la forza per risollevarci, deve nascere dentro di noi, perché non verrà mai nessuno da fuori a salvarci”.


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STRATIFICAZIONI FESTIVAL DEL 28.08.2020


sabato 12 settembre 2020

QUALE SOCIALISMO?

Dal dibattito sul giornale online LENTE LOCALE

Nel 1976 Norberto Bobbio pubblicava (Ed. Einaudi) un libro dal titolo: “Quale socialismo?”. Oltre al dibattito che si aprì sul binomio “socialismo – democrazia” (con Roberto Guiducci, Domenico Settembrini, Claudio Signorile ed altri), nella parte finale del testo, Bobbio si chiedeva (con quella sua tendenza a non raccogliere certezze ma a seminare dubbi) se “siamo proprio sicuri d’intendere  <<socialismo>> tutti quanti nello stesso modo”.

Ultimamente, sul giornale online Lente Locale, si stanno susseguendo una serie di riflessioni che riprendono il tema del socialismo italiano e del “vuoto” lasciato dallo sfascio del PSI.

Credo che sia una questione molto complessa ma provo ugualmente a dare il mio contributo al dibattito.

Rischierei di essere troppo ripetitivo ricordando il grande valore dell’ideale socialista, le conquiste sociali e politiche, e la modernità del pensiero riformista (in Calabria basta leggere qualche articolo di Sisinio Zito) in anni in cui altri partiti guardavano al futuro (quando lo facevano) con occhi adulterati da notevoli limiti.

Di certo è impossibile non menzionare Mani Pulite, ovvero un processo che nulla aveva di “storico” ma che sembrava orientato ad eliminare i dirigenti di alcuni tra i più grandi partiti italiani, in una nazione che, tra l’altro, non aveva una classe politica di ricambio.

Non per niente nel 2011, durante la presentazione di un libro, Francesco Saverio Borrelli, capo del pool Mani Pulite, disse: “Se fossi un uomo pubblico di qualche Paese asiatico, dove come in Giappone è costume chiedere scusa per i propri sbagli, vi chiederei scusa: scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all'aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale».

Così, oggi, a forza di finte campagne moralistiche, ci ritroviamo con una corruzione maggiore, con delle figure istituzionali inventate al momento ed un populismo che si scontra con altro populismo (in una specie di gara a chi la spara più grossa).

 

    Nenni e Pertini

Ma quando un partito scompare, la colpa non è solo degli altri. Credo che bisogna dirselo con franchezza reciproca. Ovvero: dopo l’ignobile “persecuzione” che si era venuta a creare, quasi tutti i politici “sopravvissuti” erano più preoccupati a riposizionarsi in altre aree che a “restituire l’onore ai socialisti” (per dirla con Claudio Martelli).

Insomma, la nave è affondata anche perché dopo la tempesta tutti l’hanno abbandonata seguendo il motto: “si salvi chi può!”.

In tutto questo, un ruolo decisivo lo ebbe Giuliano Amato che, ad inizio novembre 1992, fu indicato da Craxi quale suo successore. Amato, che da Presidente del Consiglio viveva mesi caratterizzati da enormi difficoltà, rifiutò tale investitura, ed il Partito, ormai lacerato anche nei rapporti personali e senza un vero leader, si frantumò. 

Ricordo che nel 2005, da giornalista alle prime armi, curai per qualche tempo una rubrica nella quale intervistavo ogni settimana un esponente del Nuovo PSI (i socialisti posizionati a destra) ed uno dello SDI (i socialisti di sinistra). La cosiddetta “base” era convinta che fosse necessaria una riunificazione delle anime socialiste ponendo fine ad un’anomalia che esisteva solo in Italia. Ma, nei fatti, l’unità non allettava né Boselli (che nel 2006 diventerà deputato del partito “La Rosa nel pugno”) né De Michelis (restio a lasciare “La Casa della Libertà”), ciascuno attento a preservare la propria posizione di segretario dei due mini-partiti (che in Calabria, regione con una importante tradizione socialista, riuscivano ancora ad eleggere consiglieri regionali, deputati e senatori).

Addirittura, dopo il Congresso del Nuovo PSI, svoltosi a Roma nel 2005, si formarono altri due raggruppamenti: “Rifondazione Socialista” con segretario Giuseppe Graziani e “I Socialisti” con segretario Bobo Craxi (che intanto era passato a sinistra diventando sottosegretario con il governo Prodi).

Diversi nomi e fragili tentativi di un’improbabile unificazione si avvicendarono almeno fino alle regionali 2010, anno in cui i “Socialisti Uniti” conclusero accordi sia a destra che a sinistra.

Ma al di là dei soliti giochi di potere, forse nel 2005 si perse un’opportunità, o forse l’unità era ugualmente destinata a fallire, all’interno di una coalizione di sinistra che considerava “l’aggettivo socialista impronunciabile” .

Oggi, la globalizzazione ha creato una sorta di riconfigurazione della politica planetaria che, però, non ha risolto il divario tra paesi poveri e paesi ricchi. Tuttavia, mentre in passato i grandi movimenti di lotta contro le condizioni sociali imposte dal capitalismo erano alimentati da un pensiero, spesso da un’utopia, che rappresentava un futuro da costruire, oggi, soprattutto in Italia, si sa cosa non si vuole ma è quasi impossibile ragionare su come migliorare l’esistente.

Ecco perché la domanda iniziale di Bobbio torna qui, alla fine della mia riflessione: Quale socialismo? A quale tipo di mondo aspiriamo? 

Sicuramente, ancora oggi, esistono gli oppressi, le disuguaglianze, e il senso del diritto è calpestato dall’ingiustizia. All’interno di un simile scenario, reso più tragico dalla catastrofe ecologica, sarebbe naturale l’esistenza di un partito socialista italiano capace di diventare nuovamente “sperimentalismo storico”, magari partendo dal basso, dalle comunità locali, e dall’eredità di un patrimonio ideale che non ha perso la sua modernità.

Servirebbe, però, una fortissima volontà politica, capace di superare il male derivante dal frazionismo correntizio e dalle nuove forme di “feticismo” (vedi analisi di Marx nel Capitale) imposte dalla tecnologia e dai grandi imperi economici, che provano a trasformare i rapporti sociali, privati di sogni e visioni, in “rapporti sociali tra cose” (trascurando l’ampliamento dei confini della libertà sociale).

Cosa resterà, altrimenti, dei socialisti è difficile dirlo. La speranza è quella di non ritrovarsi a vivere in un mondo simile a quello descritto nel 1908 da Jack London ne “Il Tallone di Ferro”, ovvero una società dominata dalla logica del profitto e governata da un opprimente sistema oligarchico. Anche perché nessun Ernest Everhard (il coraggioso rivoluzionario protagonista del romanzo di London che inspirò al padre di Ernesto Che Guevara il nome del figlio) si intravede tra gli uomini del prossimo futuro.                    

                                                                                                       DOMENICO STRANIERI


ARTICOLI CORRELATI: IL MIO RICORDO DI SISINIO ZITO 

LA BANDIERA DI MIO PADRE


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domenica 28 giugno 2020

La "leggibilità" della Locride

In un libro dal titolo “La leggibilità del mondo” il filosofo tedesco Hans Blumenberg ha provato a “sillabare la realtà come se essa fosse esposta in un libro aperto”. Non un’interpretazione del mondo ma una sua lettura che tiene conto “dell’indebolimento dell’autenticità dell’esperienza”. 

Ho ripensato a questo libro apprendendo che è stato presentato un video di promozione turistica della Costa dei Gelsomini, un “tentativo di ripartenza” (come lo ha definitivo Klaus Davi). Nulla da dire al massmediologo che, giustamente, prova a scuotere l’immobilismo di testa e sguardo di molti di noi proponendo un’immagine “diversa” della Calabria. 

E se per un video di 2 min. molti restano a bocca aperta come se arrivassero direttamente da una sorta di “età di mezzo”, questo mi fa riflettere sul nostro abituale, sconsolante, atteggiamento. 

Tempo fa, in una circostanza quasi simile, scrissi che “la Calabria è una regione che si accorge di essere bella perché ne parla, in un pezzo, il giornale francese Le Monde o perché il New York Times l’ha inserita fra i 52 posti al mondo da visitare nel 2017”.  

Ancora oggi è così: siamo come “un popolo intero di nati ciechi, tra i quali giunge uno straniero che, unico veggente in tutto il paese, per la prima volta rende accessibile agli abitanti la loro realtà”.

Anche perché i nostri artisti nemmeno li conosciamo e gli scrittori, probabilmente, sono troppo “nostri”, hanno nomi poco “eccentrici” (quanto basta per essere citati e non letti), segnalano parecchi mali, ci dicono che la rivoluzione, la forza per risollevarci, deve nascere dentro di noi perché non verrà mai nessuno da fuori a salvarci.

E per trovare questa forza non basta ripetere 200 volte la parola “sinergia” in ogni convegno (proviamo qualche volta a parlare anche di “intelligenza di sistema”). 

Il cosiddetto “turismo culturale”, poi, non è un semplice elenco di bellezze e monumenti, ma il risultato di un certo modo di ripensare agli elementi distintivi della nostra identità, alle risorse che vanno organizzate e gestite. Seguire l’esempio di Matera, o di altri luoghi, presuppone la capacità di progettare e avere una visione di futuro. Occorre costruire una vera narrazione che trasformi il patrimonio culturale e naturalistico in esperienza evocativa legata al territorio.

Il riscatto della Locride, in questo mondo, non conosce altre scorciatoie.



Con l'amico Walter De Fiores (Radio Venere) mentre provo a raccontare la "leggibilità" di Sant'Agata del Bianco


 

martedì 2 giugno 2020

EDWARD LEAR E IL MISTERO DEI DUE CAMPANILI

PUBBLICATO SUL PERIODICO "SENTIERI RESILIENTI" 
(Anno 1- N.01 GIUGNO 2020)

Non ci sono più le lapidi dei baroni Franco né il monumento funebre con i resti dell’arciprete Vincenzo Tedesco nella chiesa di Sant’Agata del Bianco. E’ stata distrutta ogni memoria, cancellata per sempre, durante una ricostruzione del 1954, nel silenzio e nell’indifferenza di tutti. Non ci sono più i quadri di Nicola Franzè, forse preservati tra i tesori di Gerace, e resta poco del palazzo baronale che ha ospitato nel 1847 il viaggiatore inglese Edward Lear

Tuttavia, dal 2017, nel Borgo di Sant’Agata esiste un murale realizzato dall’artista Andrea Sposari che riproduce un disegno di Lear tratteggiato proprio durante la sua permanenza a Sant’Agata (e conservato all’Università di Harvard, nell'area metropolitana della città di Boston). La vista è quella dell’altura di Cola, la collina dove si “rintanava” Saverio Strati per scrivere “Il selvaggio di Santa Venere”. Lear aveva 35 anni quando arrivò nel “grande palazzo puossinesco e antico” del barone Franco (un anno prima aveva pubblicato il suo “A Book of Nonsense”)  ed è singolare che nessuno, prima del 2017, lo abbia mai ricordato, anche solo con un “segno”, nelle piazze o per le vie di Sant’Agata. 

Il 6 agosto 1847, accaldato e tormentato dalla sete, Lear consumò vino e neve a Casignana e poi si incamminò lungo il “sentiero agevole” di Faccioli (“fra boschi ricchi di castagni o per stretti e folte siepi di terra rossa, con frondose querce sopra di noi e il mare ad est che luccicava tra i rami”). Giunto a Sant’Agata fu ospite della famiglia baronale, mancava solo la baronessa, gravemente ammalata. E così Lear, i suoi compagni di viaggio e l’arciprete Tedesco, insieme ad altri venti invitati, cenarono con i fratelli del barone ed i figli. “La volontà di accoglierci – scriverà Lear nel suo diario - cosa che abbiamo notato non mancare in tutta la Calabria, è stata perfettamente manifestata dalla sorprendente comparsa di maccheroni, uova, olive, burro, formaggio e naturalmente vino e neve sulla tavola apparecchiata con una delle più bianche tovaglie di lino, e luccicante di argenteria e cristalli”. 

E’ singolare notare come in molti paesi del nostro territorio, nella metà del 1800, era possibile bere vino e neve ad agosto. Questo perché nelle montagne d’Aspromonte esistevano le neviere, ovvero strutture costruite in pietra, sottoterra, dove veniva conservata la neve da vendere in estate. Lear soggiornò poco a Sant’Agata, partì la mattina del 7 agosto, ma fece in tempo, sicuramente prima del tramonto del 6 agosto, a raffigurare qualcosa, a pensare al fluire di una narrazione. E mentre delineava palazzi e scenari naturali, l’artista scriveva note e sensazioni, indicava in inglese dei vigneti, un giardino e poi appuntava che “la montagna è blu”. Ancora oggi, poco prima del crepuscolo, il massiccio di Scapparrone, davanti a Sant’Agata, diventa di un blu scuro che pian piano si annera prima di svanire nel buio della notte. 

L’artista inglese rappresentava solo quello che vedeva, non aggiungeva o toglieva nulla ai suoi paesaggi. Ecco perché sorprende notare che, nel suo disegno, dalla facciata della chiesa di Sant’Agata (ex chiesa di San Nicola) si elevano due campanili e non uno soltanto. Accanto alla chiesa, a sinistra, c’è poi una casa bassa (spazio che nel ‘900 sarà utilizzato da Carlo Rossi per proiettare i film del suo mitico cinema) e, subito dopo, una casa a due piani che, come qualcuno sostiene erroneamente, non è il palazzo baronale ma, quasi certamente, la casa della famiglia Garzia. Per riprodurre la residenza del barone Franco, Lear avrebbe dovuto raffigurare un’altra prospettiva, una sorta di continuazione di quella che oggi conosciamo (e della quale una copia, dal 2019, è esposta anche all’interno del Municipio di Sant’Agata).

Ma come mai la chiesa che, dal 1954, ha un solo campanile nella parte retrostante di essa, nel 1847, per Lear, aveva due campanili? E’ solo un gioco di prospettiva poiché esisteva, quasi di fronte al palazzo baronale, ancora un rudere della Chiesa di San Rocco (che, però, il Canonico Oppedisano segnalava “abbattuta da una tempesta nel 1745”) ? La chiesa di San Nicola (ora di Sant’Agata) aveva due torri campanarie ma nessuno lo ha mai scritto? Al momento si sa, grazie ad alcune foto, che fino agli anni ‘30/40 del ‘900 esisteva un campanile posto davanti la facciata della chiesa con una piccola cupola identica a quella che illustrò Lear. Il secondo campanile non esiste e anche quello rappresentato nel disegno ha una forma dissimile rispetto al primo. 

Ancora oggi, quindi, rimane il mistero, nato durante il tramonto del 6 agosto 1847, di ciò che videro realmente gli occhi del viaggiatore inglese, che, con passione e curiosità, tratteggiava in presa diretta istantanee della nostra storia che solo noi potevamo perdere.


DOMENICO STRANIERI





Sant'Agata vista, oggi, dall'altura di Cola


Sant'Agata del Bianco, disegno di E.Lear del 1847



Particolare del disegno di E. Lear


Foto Chiesa Sant'Agata, con un campanile, prima del 1954

mercoledì 1 aprile 2020

IL PANE DI LAURA (Sant'Agata del Bianco, 01.04.2020)



Un pensiero scritto su Facebook al tempo del Coronavirus

Sul Corriere della Sera, nella sua rubrica (“La stanza”) del 29 maggio 2001, Indro Montanelli scriveva che Corrado Alvaro gli raccontò “di essere cresciuto a una stretta dieta di pane e olive. Non esagerava di certo: Alvaro era incapace d’inventare. E nemmeno giocava alla vittima: era quasi per tutti così, mi disse, al suo paese. E l’unica cosa che questo passato gli aveva lasciato addosso, era la paura che a lui e ai suoi figli il pane e le olive venissero a mancare”.
In questi giorni in cui si parla di “solidarietà alimentare”, c’è una donna di Sant’Agata del Bianco, Laura, che da due settimane impasta il pane come facevano le nostre nonne, e, sicuramente, come faceva la mamma di Alvaro (ce lo ricorda pure Domenico Zappone ne “Il pane della Sibilla”). Poi lo regala a quasi tutti in paese, con un sorriso spontaneo, inebriando le case di un antico profumo di forno. Laura è "alvariana" senza aver letto Alvaro, senza sapere che lo scrittore diceva che la madre di paese “taglia il pane con misericordia, come se in quel momento avesse pietà di tutto il mondo senza pane”. In questi giorni difficili, la vera solidarietà è quella di Laura, che ci fa staccare il pensiero dalla religione del consumo e del potere facendoci riscoprire la religione della bellezza, capace, soprattutto nei momenti tristi, di esprimere la gioia di donare qualcosa all’umanità.

DOMENICO STRANIERI


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