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Firma del sindaco Nicola Mesiti (1821) |
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Marisa Manfredi |
il Blog di Domenico Stranieri
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Marisa Manfredi |
Il 20 aprile del 2022 un uomo chiude una
busta con dentro dei “pezzi” della sua vita e la spedisce al Comune di
Sant’Agata del Bianco (RC). Arriva a destinazione dopo alcuni giorni. Nella
stanza dell’area amministrativa nessuno la apre. Appena entro in Comune mi
consegnano la busta. La prendo tra le mani distrattamente, faccio una battuta stupida: “non è che si tratta di un pacco bomba?” e
vado via. Salgo al secondo piano, sono da solo, leggo nome e cognome del
mittente. Il cognome è tipico di Sant’Agata del Bianco, Barbagallo. Ricordo che
un Barbagallo (Giuseppe, nato a Sant’Agata del Bianco nel 1932) ha scritto
anche dei libri di poesia (“Canto della vendetta” e “Dolce è il canto
dell’eterno amore”) e prosa ("11° Comandamento: sfuggire ai cannibali”).
Ma il Barbagallo in questione si chiama Salvatore, ed è un musicista. Nella busta, infatti, trovo vecchi dischi originali, cd, foto, articoli di vari giornali, riviste, tutte cose che riportano a stagioni passate che serrano il cuore e lo rapiscono.
Quando parla di sé, Salvatore Barbagallo precisa il suo nome d'arte: “Mauro Giordani”. Ed in effetti la busta contiene un disco del 1977 dal titolo “In due” cantata, appunto, da Mauro Giordani. La canzone si trova anche su Youtube (Clicca qui) e fu presentata al Cantagiro da Ezio Radaelli e registrata su etichetta R.C.A. Ci sono, poi, altri dischi, tra cui “Mexico”, scritta sempre da Mauro Giordani ed incisa in inglese, tedesco, spagnolo e francese. In Francia, con il titolo ”28° à l’ombre” (Clicca qui), il successo è stato talmente grande che la canzone è rimasta nelle classifiche per ben 6 anni. In mezzo a tanto materiale noto pure un CD di Celentano, “La pubblica ottusità”. Lo apro e leggo che la musica della canzone “L’ultimo gigante” (che è diventata nel 1987 la sigla di Fantastico 8, su Rai 1) ha il testo di Adriano Celentano e la musica di Salvatore Barbagallo.
Dopo la collaborazione con Celentano, Salvatore Barbagallo prova un “grande vuoto interiore” (che rivela pure in alcune interviste). Decide di abbandonare lo spettacolo e compone solo per scopi umanitari. È promotore e direttore artistico dell’Associazione Syntonia, attiva nella lotta alla leucemia e alla talassemia infantili.
Mentre sfoglio i tanti articoli che mi sono stati spediti, trovo delle vecchie foto, alcune scattate a Sant’Agata del Bianco. Sono delle immagini che possiedono l’eternità fugace del sogno, come quella in cui Salvatore è in campagna con la sua classe ed il maestro Carlo Galletta (la prima persona che lo ha esortato a cantare) o quella in cui, ormai adulto, torna per un giorno in paese per salutare l’amico Carlo Rossi (colui che d’estate portava la luce del cinema a Sant’Agata).
Guardando quei volti, ho pensato che, ovunque ci troviamo, andremo sempre a cercare in un angolo dell’anima il mistero delle nostre origini, i vividi colori della nostra terra. Forse perchè non riusciremo mai a fuggire da certi paesaggi dove la memoria ci rimanda sempre, senza chiederci il permesso. Per questo Salvatore Barbagallo ha sentito l’urgenza di un “ritorno”, per raccontarsi attraverso i suoi dischi e la sua storia. La busta che era arrivata in Comune e che, all'inizio, avevo afferrato senza troppa attenzione, conteneva un mondo ed io, senza sospettarlo, avevo un compito da assolvere: quello di scrivere di un uomo generosamente impegnato a dare un senso alla sua arte, con un’intelligenza indipendente, a viso aperto, che, da tempo, sente il bisogno di regalare ai bambini più deboli una speranza, una musica che allenta il dolore.
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Foto di Salvatore Barbagallo scattata da Carlo Rossi |
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La classe di Salvatore Barbagallo (lui è il ragazzo appoggiato all'albero con la cartella in mano) |
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Salvatore Barbagallo a 14 anni |
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Salvatore Barbagallo (il primo a sinistra con la maglietta bianca) a Sant'Agata davanti la casa di Carlo Rossi |
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Salvatore Barbagallo con Alberto Lupo al Cantagiro del 1977 |
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Salvatore Barbagallo e Little Tony (1977) |
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Salvatore Barbagallo oggi |
Il mio ricordo, a 103 anni dalla sua nascita (28 novembre 1918)
Il racconto privato della magia del calcio
Tra i 12 e i 13 anni,
frequentavo la scuola media a Saronno, in provincia di Varese. Era il 1990 e ancora
passavano i treni a lunga percorrenza dalla stazione di Bianco e dalla Locride.
Quando aspettavamo il convoglio che doveva portarci a Milano, e che appariva lunghissimo
rispetto alle misure che eravamo abituati a veder sfrecciare lungo la costa, si
assisteva sempre alla solita scena, coraggiosa e incosciente, di persone che si
aggrappavano agli sportelli del treno in corsa per occupare una cabina prima
degli altri (“gli altri” erano coloro che salivano normalmente, quando il treno
si fermava).
Il rischio assicurava un posto
comodo ai propri cari. Chi era meno scaltro e meno acrobatico, invece, sostava
nel corridoio per tutta la durata del viaggio. A dire il vero c’era sempre
qualche uomo che faceva sedere le donne rimaste all’impiedi e, nel tragitto
che sembrava interminabile, io leggevo l’Intrepido
o qualche altra rivista che oggi non esiste più.
Arrivato in Lombardia, per
un ragazzo abituato a correre libero, in un paese posto su una di quelle colline del Sud Italia
che si elevano davanti al mare, i pomeriggi passati al sesto piano di un anonimo condominio sembravano (e lo erano) di una noia ineguagliabile. Cercavo di inventarmi qualcosa, una
formazione della Juve (avevamo, ahinoi, Oleksandr Zavarov con il numero 10) o della
nazionale italiana, prefigurando le “notti magiche” che avremmo vissuto in
estate.
Ad aprile del 1990, quasi
per gioco, decisi di inviare una delle squadre che immaginavo proprio al settimanale
Intrepido. La mia lettera fu pubblicata il 24 aprile del 1990, e sulla copertina
della rivista c’era una foto di Maradona. L’articolo, che raccontava un Maradona
“ritrovato” che puntava a vincere scudetto e mondiale, era a firma di Massimo Gramellini
(oggi editorialista del Corriere della Sera).
Malgrado io fossi
juventino, adoravo il campione del Napoli. Quando giocava rimanevo folgorato, avvertivo la trasformazione di ogni peso in leggerezza, o in grazia, come ben descrive Alessandro D’Avenia in un
articolo dal titolo “Il bandito e il campione” del 30 novembre 2020: “Un corpo
che è insieme di carne e, in qualche modo, di luce, che poi è la struttura
stessa dell’universo...".
Per qualche decennio, dimenticai
quell’Intrepido, che però conservo ancora, ma quando dovetti far cogliere esattamente a mio
figlio la magia del calcio gli raccontai di Maradona. Gli feci vedere i filmati dei palleggi,
i goal, gli spiegai cosa significhi giocare alla Bombonera (lo stadio del Boca
Juniors) e perché Maradona scelse di non vestire la maglia del River Plate (società
più ricca rispetto a quella rivale del Boca). E, infine, gli parlai dei Mondiali,
della partita contro l’Inghilterra, e di cosa succedeva a Napoli quando giocava
Maradona.
Mio figlio, non potendo
tifare per Diego, trasferì la sua passione su Messi e l’Argentina…fino al 25
novembre 2020, giorno in cui mi ha inviato un sms: “Pa…è morto Maradona”.
Proprio lui, il bambino che, con la sua innocente disposizione del cuore, ascoltava le mie storie, e proprio a 12 anni (la mia stessa età tra il 1989/90, quando scrivevo formazioni della Juve sognando di contrastare lo strapotere del Napoli e del Milan).
Mi invase una malinconia
opaca, come se con Maradona se ne andassero via tanti frammenti di passato.
Non ho mai giudicato l’uomo,
specialmente perché egli stesso sapeva di sbagliare e lo diceva pure. In fondo, nella tragedia
della vita, molti grandi artisti brillano di una luce nuova, hanno un loro lato
epico (soprattutto quando scelgono la difesa naturale dei più deboli), e alla
fine si autodistruggono.
Ha ragione Mario
Sconcerti che, in uno dei suoi libri dedicati al calcio, spiega chiaramente: “Maradona
non è mai stato un equivoco. Ha vissuto da eroe, solo in mezzo agli eccessi.
Venale, generoso, romantico, assolutista, senza un dubbio veramente morale. Un
uomo discutibile, come tutti gli eroi. Ma dovendo, per fortuna, giudicare solo
il calciatore, non c’è dubbio sia stato il migliore”.
Ecco, Maradona è stato semplicemente il migliore. Tutto il resto, tra qualche anno, non interesserà più alla storia del mondo.
DOMENICO STRANIERI
DAL SETTIMANALE RIVIERA DEL 02.08.2020
Sant’Agata del Bianco, oggi, è un paese molto diverso da quello che il sindaco Domenico Stranieri ha trovato in occasione del proprio insediamento, quattro anni fa. Lo abbiamo intervistato per cercare di capire quale sia la matrice di questo cambiamento e quale futuro attenda il centro, che da oggi pomeriggio sarà teatro della nuova edizione del Festival “Stratificazioni”.
Sei riuscito a stravolgere una comunità normale trasformandola in un centro di cultura per certi aspetti avanzato. Quali sono i vantaggi?
La dimensione culturale è determinante per la qualità della vita e, in altre realtà, ha un posto importante nelle politiche pubbliche e nelle strategie aziendali. Noi abbiamo provato a raccontare il nostro territorio, diventando non solo dei conoscitori, ma anche dei sostenitori delle nostre bellezze artistiche e ambientali. Bisogna diventare attenti osservatori, avere la capacità di studiare cosa si può fare con tutto ciò che si possiede (e non è poco), e poi farlo per davvero.
Esiste una parola, un imperativo da seguire per superare le difficoltà?
La parola è: oltrepassare. Quando abbiamo pensato al Festival “Stratificazioni”, ai murales, ai musei, sapevamo di dover affrontare l’avanzata di un deterioramento che aveva varie forme (estetiche, morali e sociali). Ma non potevamo fermarci davanti alle difficoltà, all’indifferenza o alle critiche di chi non ha mai fatto nulla per la comunità. “Oltrepassare” ha significato riconoscere un punto di partenza fatto di cultura, memoria storica, identità, e renderlo “carico” di futuro.
Cos’è il Museo delle cose perdute?
È un luogo molto particolare, nel cuore del Borgo, davanti la piazzetta di Tibi e Tascia. È stato ideato dall’artista Antonio Scarfone, che ha ritrovato ciò che gli altri avevano perduto. È un piccolo universo all’interno del quale non si ripristina soltanto il passato, conservando gli elementi originali della nostra identità, ma è la metafora di come si combatte la “sottocultura della distruzione” con la cultura dell’impegno, dell’arte e della consapevolezza.
Il Festival di musica e letteratura “Stratificazioni” ormai è una bella realtà della nostra regione. Anche quest’anno la Regione Calabria ha dato un punteggio alto al vostro progetto.
All’inizio il Festival è nato senza alcun tipo di finanziamento. Ragionavamo in tempi artistici e non economici. L’idea è nata in montagna, insieme a Mimmo Catanzariti, Antonella Italiano ed Ettore Castagna (che ha concepito il nome). Ricordo che Gioacchino Criaco ha chiamato molti amici chiedendo di sostenere il progetto anche gratuitamente, poiché non bisognava arrendersi. Anche in questo caso, insieme a tanta gente, abbiamo oltrepassato un’immobilità e una provvisorietà che anche Corrado Alvaro mal sopportava (in Calabria tutto accade lentamente o non accade mai… tutto si può aspettare all’infinito).
Cosa farete quest’anno per ricordare lo scrittore Saverio Strati?
Il programma del Festival richiamerà molti temi stratiani. E poi l’intera facciata della casa di Strati, nel borgo, diventerà un unico grande murale dedicato al nostro scrittore.
Quale è l’argomento stratiano che più ti piace?
Probabilmente Strati proietta in molti personaggi i suoi tormenti. La sua letteratura è segnata da fughe, crisi e angosce. Mi piace leggere il modo in cui Strati descrive il carattere di quei giovani che non volevano assomigliare ai loro padri, ma avevano ansia di conoscenza e di rinnovamento, una insospettabile apertura verso nuove idee.
Stratificazioni riparte proprio oggi, domenica 2 agosto alle 18:30.
Si, ci sarà un suggestivo spettacolo tra le rocce della nostra montagna, a Campolico. È il racconto di un viaggio, del maestro Nour Eddine Fatty, un topos letterario che segna la storia dell’uomo dai tempi antichi fino ai giorni nostri.
Ci sarà anche qualcosa di inatteso nella vostra estate?
Vogliamo potenziare la “Via delle porte pinte" e ci sarà l’installazione di una bellissima opera nel cosiddetto “punto zero” del paese, ovvero il luogo dal quale, secondo la leggenda, iniziò la fondazione di Sant’Agata. Ma sarà una sorpresa.
Chiudiamo con una tua riflessione di qualche tempo fa dal titolo “La leggibilità della Locride”. Molti hanno capito, altri no. Cosa volevi intendere?
Provo a ripetere una sola frase che, forse, racchiude il senso di tutto il ragionamento: “la rivoluzione, la forza per risollevarci, deve nascere dentro di noi, perché non verrà mai nessuno da fuori a salvarci”.