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mercoledì 22 ottobre 2014

L'ULTIMA MAESTRA DI TELAIO

Caraffa del Bianco 
Addio a Rosa Tedesco, l'ultima grande maestra di telaio

Dal mensile IN ASPROMONTE di ottobre 2014

IN ASPROMONTE di ottobre 2014

Era come l’inizio di un antico rituale. Si aveva questa impressione quando Rosa Tedesco, l’ultima grande maestra di telaio, si approntava a tessere. La preparazione di tutto, “orditura”, aveva qualcosa di misterioso, esoterico. E’ difficile persino descriverla a parole. La sua discepola, Grazia Volonà, la seguiva in questa particolare funzione, innanzi ad un muro di pietra, dove in silenzio, sulla “cruciera”, si stabiliva la lunghezza e la larghezza delle coperte di seta. Era la base del lavoro. Il disegno si definiva a parte.


Rosa Tedesco, di Caraffa del Bianco, era, a sua volta, l’allieva prediletta di Agata Borgia (a “Giànzina”) che le insegnò tutto dell’arte del telaio. Prima di morire le donò anche il suo “grastellu”, uno strumento di legno indispensabile per dividere i fili del tessuto all’inizio del lavoro d'intreccio (in attesa di riempire “u pettinu”). Quasi un riconoscimento simbolico per chi l’aveva seguita fin da bambina ed era ormai pronta a sostituirla, ad essere lei una maestra.
Difatti, non c’era nessuno (giornali, tv, scuole ecc..) che occupandosi degli antichi mestieri del nostro territorio non andava a trovarla. E sicuramente il ritmo del suo telaio (nel tempo del progresso privo di ogni senso umano) non era dissimile da quello delle donne greche e latine descritte nei poemi epici. 

Rosa Tedesco prepara il telaio aiutata dalle
sorelle Volonà (Grazia e Natalina)

Ma non era un ritmo “freddo”, meccanico. Di Rosa Tedesco (scomparsa alla fine di settembre) basterebbe, difatti, narrare solo gli occhi, la gioia che traspariva quando arrivava con tutti gli arnesi per òrdire (anche fino a 10 coperte). Aveva un modo tutto suo, poi, di prendere posizione al telaio. Era raffinata ed infaticabile. Tra le tante cose, era pure discendente di Vincenzo Tedesco, il religioso a cui si deve la Memoria dei luoghi antichi e moderni del circondario di Bianco, un’opera fondamentale, pubblicata a Napoli nel 1856.

Con lei, dunque, se ne va un mondo, poiché la sua tecnica, oltre a rappresentare un fenomeno culturale, era innanzitutto una maniera di stare nella realtà, di tenere insieme le importanti lezioni del passato con i progetti del futuro. Non si fermava mai, difatti, Rosa Tedesco, nemmeno quando la malattia le rendeva incerti i movimenti. Lei continuava ugualmente a piegare la testa su qualche coperta, per coglierne meglio la luce. E mentre l’osservava pensava sempre alla stessa cosa, magari tratteggiando un disegno nella mente. Ovvero che, nei prossimi giorni, c’era ancora tanta seta da lavorare.



DOMENICO STRANIERI









giovedì 18 settembre 2014

Le logge di CAPO BRUZZANO (RC)

Sant'Agata, Caraffa del Bianco e la realtà ancestrale di Capo Bruzzano (Zefirio)

Dal mensile IN ASPROMONTE di Settembre 2014


Capo Bruzzano visto dalle logge

Un mio amico mi ha sconsigliato di pubblicare un pezzo riguardante le logge di Capo Bruzzano, ovvero quelle costruzioni di legno e felci realizzate sulla spiaggia, d’estate. Il problema, sempre secondo il mio amico, consiste nell’impossibilità di rievocare attraverso la scrittura profumi, rumori ed emozioni di chi ha vissuto l’esperienza di “accamparsi al mare” negli anni ’60. Sicuramente ha ragione. Eviterò, quindi, di inseguire le parole giuste per riattivare l’olfatto e l’udito e proverò a concepire, con esse, unicamente delle scene.

Cerchiamo, per prima cosa, di immaginare come si spostavano uomini, donne e bambini su quella rientranza della costa difesa a ponente da un promontorio (“u Capu”), dove soffia la brezza dello Zèfiro che, come diceva Petrarca, “torna, e ’l bel tempo rimena”.
Da luglio ad agosto, alcune famiglie di Sant’Agata e buona parte di quelle di Caraffa del Bianco si trasferivano a fianco della scogliera di Capo Bruzzano (un tempo Capo Zefirio) nella zona in cui, secondo Strabone, sbarcarono i Locresi (VII sec. a.C) e vi abitarono per tre o quattro anni accampandosi vicino a una fonte chiamata “Locria”.


Probabilmente in maniera non dissimile dagli antichi greci, santagatesi e caraffesi congegnavano delle dimore, le logge, messe in piedi con quattro pilasti di legno (le forche) e rifinite con pareti e tetti di canne e felci.
Tali strutture, che da lontano si presentavano come un allineamento di carrozzoni fermi, avevano due porte: una rivolta verso il mare ed una retrostante, verso i rilievi di terra bianca. Più lunghe delle porte erano le “pezzare” appese ad esse, le cui estremità, di notte, venivano riempite di sabbia per mantenere chiuso l’ingresso contro possibili raffiche di vento. L’insidia tangibile, chiaramente, era il pericolo degli incendi (rimane ancora vivo nei ricordi quello del 1967).

Tuttavia, si stava sempre dinanzi alla riva, in un’essenzialità ancestrale senza tempo, con i “vicini di ruga” che venivano sostituiti dai  “vicini di loggia” (chiunque, difatti, ogni anno preservava il suo posto). Era come rifugiarsi dal grande mondo, che dalla collina si abbracciava facilmente con lo sguardo, nel piccolo mondo di un’insenatura marina, fatto di rocce, sabbia rovente ed un continuo contatto con l’acqua salata. Alla fine, inevitabilmente, giochi, acrobazie, corse, volti e sorrisi diventavano parte del paesaggio, di un nuovo habitat capace di soddisfare le necessità dell’epoca.

Ci si avvaleva della battigia, ad esempio, come luogo refrigerante (soprattutto per mantenere piacevolmente fresche le angurie) o si saliva su un’altura per dissetarsi presso una sorgente naturale (la “Locria” dei greci?).

Famiglia di Caraffa del Bianco.
I due bambini sono Enzo e Saverino Bartolo.

Qualcuno, addirittura, portava con sé, in spiaggia,  gli animali (galline, maiali, pecore e asini) senza, però, abbandonare in nessun momento le campagne. Da Capo Bruzzano, infatti, prima della comparsa del sole, gli uomini si recavano nei propri terreni come pazienti viandanti.
Per fare la spesa, invece, si camminava fino ad Africo Nuovo che, giusto nei primi anni ’60, stava prendendo forma sul litorale (dopo la terribile alluvione del 1951 che produsse conseguenze devastanti per il Comune situato in montagna).
Ma per quale ragione ci si allontanava per due mesi dai centri abitati? Innanzitutto perché soltanto due o tre famiglie, in paese, possedevano un’automobile. Oltre a ciò, la permanenza al mare era raccomandata dai medici per prevenire o curare vari malanni. L’acqua dello Jonio, in effetti, era limpidissima. Se ne servivano i pastori, per fare la ricotta, e veniva adoperata persino come purificante naturale per naso e gola.  
Inutile precisare che non esistevano i servizi igienici. Ognuno si riparava o sotto un ponte (le donne sempre con una “sentinella” al seguito) o dietro una pianta erbacea. Pochissimi disponevano di una latrina ricavata nella sabbia e circoscritta dentro una capanna.

Un’altra caratteristica del posto erano (e sono) delle rocce scavate dai flutti e dal tempo, delle vere e proprie piscine, i “cardarelli”, dove i più piccoli amavano fare il bagno. Diversamente, i ragazzi maturi erano sempre in competizione per stabilire chi aveva eseguito il tuffo più spettacolare da una rupe denominata “Salto della vecchia” (alta una quindicina di metri). Nei paraggi, inoltre, si intravedevano scogli particolari nei quali non era difficile riconoscere fattezze di astronavi, cammelli o dinosauri. Un po’ come si vagheggia con i lineamenti delle nuvole.

Appena sopraggiungeva l’ombra della sera si degustavano formaggi, olive, salami, peperoni alla brace e quanto di buono offriva la nostra tradizione gastronomia. E non mancava il pesce che, solitamente, i contadini barattavano con l’olio d’oliva.
Subito dopo, per svagarsi o discutere, ci si raggruppava di fronte al mare, scuro come una realtà inconoscibile. E attorno agli anziani, che somigliavano a vecchi cantori, si ritrovavano in tanti pronti a cogliere, nelle loro storie, degli insegnamenti di vita.
Solo a fine agosto si scorgevano le prime persone che iniziavano a disfare la loggia per rincasare in collina. Così, i bambini si appropriavano dello spazio vuoto, e delle fronde rimaste, per costruire la loro piccola fortezza. Si sentivano grandi e indipendenti quando si svegliavano conquistati dalla luce dell’alba che, improvvisa, filtrava tra i rami delle felci. E forse, per loro, nessuno schermo in HD varrà mai la bellezza di quella luce.

Malgrado ciò, qualche giovane aveva fretta di rientrare in paese. I mitici Don Ciccillo e Don Carlo Rossi, di Sant’Agata, avevano organizzato una sala giochi con delle novità straordinarie: biliardo e calcio balilla.  E agli inizi degli anni ’70 arrivarono anche i flipper.
Pertanto, passare dai giochi semplici della spiaggia al lampeggiare dei flipper era, per molti, quasi come viaggiare nello spazio.

Eppure, alla fine, è sempre la suggestione poetica che vince. Di quel periodo, infatti, ciascuno descrive la medesima sensazione, tenendo gli occhi socchiusi, in modo magico. Ovvero quella di assopirsi restando tutta la notte con il sonno legato al ritmo delle onde. Ma questo, come dice il mio amico, è impossibile descriverlo con le parole.


DOMENICO STRANIERI




Famiglia di Caraffa davanti alla propria loggia (Anni '60).
Al centro Angela Condemi con la mamma Rosina e la zia Ida.







domenica 24 agosto 2014

IL GERGO SEGRETO DELLA FIUMARA

UN ANTICO LINGUAGGIO RACCONTATO DA FRANCESCO MAISANO

Dal mensile IN ASPROMONTE di Agosto 2014



Proviamo a leggere questa frase ad alta voce: “Ti seviseyu sedosamaseni a semisezza semisenosetti nto semisevosescu di Sestoseli”.  Si tratta di un modo d'esprimersi  volutamente contorto. Tradurremo più avanti  il suo significato nascosto poiché, innanzitutto, bisogna capire dove nasce un lessico e perché.

Ho scoperto durante un viaggio in Australia, grazie a Francesco Maisano, emigrato a Melbourne nel 1950, questo gergo calabrese che si parlava in una contrada denominata “Màglia” (che oggi si estende fino al centro abitato di Africo Nuovo), tra la foce della fiumara La Verde e la campagna di Stoli.
E’ curioso rintracciare in un altro continente elementi del nostro passato di cui non abbiamo memoria ma che gli italiani, partiti più di mezzo secolo fa, non smettono di tramandare ai propri figli.
Ovviamente, in Aspromonte quando narriamo di cose segrete, bande leggendarie, tesori invisibili,si pensa subito ai briganti. Se non altro perché, come diceva Walter Benjanim, restano pur sempre i più nobili tra i delinquenti,  gli unici a possedere una storia. Benjamin si riferiva principalmente ai banditi dell’antica Germania, ed è singolare che anch’essi utilizzassero un loro linguaggio specifico: il Rotwelsch.

Ma Francesco Maisano non ha per nulla l’aspetto del malavitoso, anzi ha gli occhi limpidi e affabili delle persone buone. Non è più tornato in Calabria (ed è sicuro che morirà senza rivedere la sua terra) ma rammenta perfettamente che da bambino con parenti e amici comunicava in uno strano modo, volutamente “contaminato”. “Mio padre mi insegnò questo linguaggio perché non venissimo capiti dagli altri”, mi spiega. Anche lui, poi, ha trasmesso alla figlia Franka l’antico gergo, quasi con naturalezza, come un segno distintivo, un codice da lasciare in eredità.


Difficile, comunque, individuare in quale fase storica si ravvisò la necessità di non farsi comprendere.
In una terra come la nostra, fuori mano e crocevia di tanti popoli, sicuramente non bastava avere capacità di sopportazione ed una buona dose di fortuna. Occorrevano anche furbizia e destrezza e, probabilmente, qualche volta, per sopravvivere e sfuggire alle persecuzioni delle autorità del tempo, era importante “non farsi capire”.

Forse anche per questo, nell’indole dei calabresi, permane un ancestrale senso del sospetto, la paura di essere raggirati e una pari destrezza ad ingannare.
Certo, la globalizzazione sta modificando pure l’arcano impulso che avevamo di proteggere sentimenti e cose. Tanto che, ad esempio, su Facebook non vi è molta differenza tra il modo di esprimersi di un lombardo o quello di un calabrese. Parafrasando Alvaro potremmo dire che entrambi sono impegnati a costruire un piccolo monumentino a se stessi (“oggi ho mangiato questo….ecco un selfie”…).

Conosceremo tra qualche anno quale posto avremo nel “paradiso della tecnica”.
Intanto, poiché lo avevo promesso, vi devo la traduzione dell’espressione iniziale. E cioè quella frase che un tempo, quando Francesco Maisano era bambino, fissava segretamente qualcosa: “Ci vediamo domani, a mezzanotte, nel bosco di Stoli”.

sabato 23 agosto 2014

RITRATTI ASPROMONTANI: L'UMANITA' DI ROCCO ZAPPIA


Dal mensile IN ASPROMONTE di Agosto 2014



Tra le tante esperienze che si ereditano dai genitori ve ne sono alcune che sono delle vere e proprie forme d’arte, poiché non comportano nessun profitto ed impegnano un uomo per tutta la vita. 

E’ il caso di Rocco Zappia, di Caraffa del Bianco, che continua l’opera del padre, ovvero quella volontà disinteressata di fare del bene, di essere al servizio della comunità.

Ricordo che da bambino, quando mi trovavo dai miei nonni, proprio a Caraffa, spuntava sempre qualcuno, arrivato da chissà dove, che chiedeva: “sapete dove abita mastro Rocco?”.  Noi accompagnavamo tutti dal nostro speciale vicino, se non altro perché, in lui, non abbiamo mai avvertito un minimo segnale di fastidio. Eppure ne avrebbe avuto motivo, qualche volta.

Immaginiamoci una persona che accoglie chiunque nella propria casa, senza preavviso. Gente spesso sconosciuta che, quotidianamente, gli domanda di sbloccargli una spalla o di porre rimedio a una caviglia malconcia.
Mastro Rocco, quasi seguendo un rito, prende l’olio, che usa come balsamo naturale, e con movimenti precisi e sapienti, gli stessi che eseguiva suo padre, rimette a posto slogature, distorsioni o lussazioni. Dopodiché offre a tutti un bicchiere di vino, da lui stesso prodotto.

Non si è mai pagato nell’esercizio di questa sua predisposizione naturale a curare gli altri. E gli va bene così.
Una bella lezione laica di altruismo, la sua, che fa parte dei meccanismi interiori della civiltà contadina. Difatti, in un certo senso, quest’uomo rappresenta il punto di collegamento tra la vocazione/missione di un’antica cultura ed il futuro.

Oggi mastro Rocco ha tre figli laureati che, per motivi di lavoro, risiedono in altre regioni. Il figlio che porta il nome di suo padre, Giuseppe, è medico.
Per questo mi piace pensare ad un sottile filo conduttore, ad una continuità della natura umana, che parte dal primo Giuseppe Zappia (1880-1973), che imparò dall’anziano Pietro Pizzi di Contrada Crocefisso (Bianco) la tecnica di guarire la gente, ed arriva fino alle nuove generazioni.

Un’apertura verso “l’altro” che ha origine in Aspromonte e si allarga verso mondi diversi. Anche perché, da sempre, trasmettere un’arte o un mestiere ad un figlio equivale, più o meno, a darsi il cambio, ad essere degnamente rimpiazzati, nella corsa senza fine della vita.


DOMENICO STRANIERI



Sotto, il padre ed il figlio di Rocco Zappia 
(dal libro di Vincenzo Stranieri  "La Koinè Agro-Pastorale nella Locride, Age 2010)




sabato 26 luglio 2014

UN SET PER TIBI E TÀSCIA

Quando perdemmo il nostro Nuovo Cinema Paradiso

Dal mensile IN ASPROMONTE di luglio 2014


L'articolo sul mensile IN ASPROMONTE

 Vattinni, chista è terra maligna! Fino a quando ci stai tutti i giorni ti senti al centro del mondo, ti sembra che non cambia mai niente. Poi parti. Un anno, due, e quando torni è cambiato tutto. Si rompe il filo. Non trovi chi volevi trovare, le tue cose non ci sono più. Bisogna andare via per molto tempo, per moltissimi anni, per ritrovare, al ritorno, la tua gente, la terra unni si nato”. 
Con queste parole, nel capolavoro di Giuseppe Tornatore del 1988, “Nuovo Cinema Paradiso”, l’anziano e cieco ex proiezionista Alfredo consigliava al giovane Totò di andarsene dalla Sicilia. Un tema, quello della fuga nella speranza di un futuro migliore, che ripercorre tutta la storia del Sud Italia e della sua letteratura. Eppure, in Aspromonte, un decennio prima del 1988, potevamo avere il nostro Nuovo Cinema Paradiso. Ma la progettazione del film fu sospesa per futili motivi economici.


Nel 1977, difatti, per le vie di Sant’Agata del Bianco camminavano uno scrittore ed un regista accompagnati dai loro assistenti. Visionavano posti, vie ancora inalterate dal futuro “partito del cemento”, sorgenti d’acqua e paesaggi. Registravano luoghi da collegare a possibili scene.
Lo scrittore in questione era Saverio Strati, nato proprio a Sant’Agata del Bianco nel 1924, mentre il regista era Angelo Dorigo che, tra i suoi tanti lavori, aveva avuto un buon successo nella direzione di “Amore e guai”, interpretato da Valentina Cortese e Marcello Mastroianni.

La pellicola doveva essere una produzione della RAI, azienda che, dopo la conquista del premio Campiello da parte di Strati, aveva deciso di girare un film tratto dal libro “Tibi e Tàscia”. Ovvero la storia di due ragazzi (Tiberio e Teresa) che, quando non svolgevano un lavoro, giocavano liberamente negli spazi aperti della loro realtà sognata. Poiché, come scrisse Geno Pampaloni, l’alternativa alla cruda esistenza del paese non era la giustizia, ma l’evasione.

 "TIBI E TASCIA" IN UN MURALE DEL BORGO DI SANT'AGATA DEL BIANCO

Tutta la narrazione, pertanto, è contrassegnata dall’avvicendarsi di fantasie, desideri di fuga ed esperienze dolorose. Tibi, alla fine, riuscirà ad andare via mentre Tàscia resterà sola, con la consapevolezza di dover vivere, per sempre, nella misera ristrettezza di un mondo chiuso.

Una consapevolezza, questa, ben espressa da Pasquino Crupi che, a tal proposito, evidenziava: “Nelle verdi e sazie campagne del Mezzogiorno gli uomini non ebbero mai età: nacquero adulti. Non esistono fanciulli, ossia esseri umani lontani dalla fatica”.
Ecco perché Tàscia si troverà in piazza, con gli altri ragazzi, ad assistere alla partenza di Tibi. “ Oh come gridava ora la macchina, - si legge alla fine del romanzo – si muoveva, correva, alzava una nuvola di polvere e portava Tibi chi sa dove, chi sa in quale mondo straordinario e tutti rimanevano lì, a guardare, e lei, Tàscia, si sentiva serrare la gola dai singhiozzi, si sentiva la bocca più amara del fiele”.
Come dicevamo prima, dunque, Strati e Dorigo avevano individuato i luoghi per tramutare in immagini questo libro del 1959. La piazzuola dove i ragazzi giocavano con le nocciole doveva essere la stessa immaginata da Strati mentre elaborava la sue pagine: nella “ruga randi” di Sant’Agata, proprio di fronte la sua casa.

Dorigo, poi, aveva visitato il centro storico di Casignana e le “sette fontane” di Caraffa del Bianco per rappresentare, esattamente, i diversi momenti di vita quotidiana. Egli era affascinato dai nostri paesi, tanto che ripeteva: “il futuro è in questi borghi, sono intatti”. Ma non solo. Pure i protagonisti del film dovevano essere del posto. Lo scrittore ed il regista, quindi, si recarono presso la locale scuola elementare per selezionare i giovani attori. Qualcuno ricorda che, per parecchi minuti, lo sguardo di Strati fu come catturato dai disegni degli alunni esposti in una parete. “Qui ci sono dei veri talenti! ”, esclamò quasi ad alta voce. Pochi giorni dopo, l’equipe che doveva occuparsi della realizzazione dell’opera cinematografica rientrò a Roma ma, per delle banali difficoltà finanziarie, la pellicola non venne mai girata.

LE SETTE FONTANE DI CARAFFA DEL BIANCO

Sembrava tutto pronto, ogni cosa era stata valutata con attenzione, ma niente! Il progetto sfumò e non se ne parlò più. Certo, noi da soli potevamo fare ben poco, non eravamo in grado di dare un seguito a quell’idea, di liberarci dalle nostre trappole mentali. E non avevamo nemmeno voglia di preservare le forme di quel mondo passato.
Oggi però, di colpo, ci accorgiamo di aver perso definitivamente il nostro Nuovo Cinema Paradiso. Del paese ammirato da Dorigo non rimane quasi traccia, così come dei due splendidi palazzi nobiliari che poteva vantare la piazza di Sant’Agata.
Ed a ragionarci bene in quella piazza arrivava ogni estate un personaggio molto simile all’Alfredo delineato da Tornatore
Si chiamava Carlo Rossi, attaccava i manifesti colorati con i film che avrebbe proiettato nel suo cinematografo estivo e andava a parlare alla gente con il tono confidenziale e scherzoso che lo caratterizzava. Ma questa è una storia nella storia, che racconteremo un’altra volta, in ritardo come sempre.


Bambini di oggi che giocano come quelli di ieri, proprio nella piazzetta che fu di Tibi e Tàscia.