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sabato 26 luglio 2014

UN SET PER TIBI E TÀSCIA

Quando perdemmo il nostro Nuovo Cinema Paradiso

Dal mensile IN ASPROMONTE di luglio 2014


L'articolo sul mensile IN ASPROMONTE

 Vattinni, chista è terra maligna! Fino a quando ci stai tutti i giorni ti senti al centro del mondo, ti sembra che non cambia mai niente. Poi parti. Un anno, due, e quando torni è cambiato tutto. Si rompe il filo. Non trovi chi volevi trovare, le tue cose non ci sono più. Bisogna andare via per molto tempo, per moltissimi anni, per ritrovare, al ritorno, la tua gente, la terra unni si nato”. 
Con queste parole, nel capolavoro di Giuseppe Tornatore del 1988, “Nuovo Cinema Paradiso”, l’anziano e cieco ex proiezionista Alfredo consigliava al giovane Totò di andarsene dalla Sicilia. Un tema, quello della fuga nella speranza di un futuro migliore, che ripercorre tutta la storia del Sud Italia e della sua letteratura. Eppure, in Aspromonte, un decennio prima del 1988, potevamo avere il nostro Nuovo Cinema Paradiso. Ma la progettazione del film fu sospesa per futili motivi economici.


Nel 1977, difatti, per le vie di Sant’Agata del Bianco camminavano uno scrittore ed un regista accompagnati dai loro assistenti. Visionavano posti, vie ancora inalterate dal futuro “partito del cemento”, sorgenti d’acqua e paesaggi. Registravano luoghi da collegare a possibili scene.
Lo scrittore in questione era Saverio Strati, nato proprio a Sant’Agata del Bianco nel 1924, mentre il regista era Angelo Dorigo che, tra i suoi tanti lavori, aveva avuto un buon successo nella direzione di “Amore e guai”, interpretato da Valentina Cortese e Marcello Mastroianni.

La pellicola doveva essere una produzione della RAI, azienda che, dopo la conquista del premio Campiello da parte di Strati, aveva deciso di girare un film tratto dal libro “Tibi e Tàscia”. Ovvero la storia di due ragazzi (Tiberio e Teresa) che, quando non svolgevano un lavoro, giocavano liberamente negli spazi aperti della loro realtà sognata. Poiché, come scrisse Geno Pampaloni, l’alternativa alla cruda esistenza del paese non era la giustizia, ma l’evasione.

 "TIBI E TASCIA" IN UN MURALE DEL BORGO DI SANT'AGATA DEL BIANCO

Tutta la narrazione, pertanto, è contrassegnata dall’avvicendarsi di fantasie, desideri di fuga ed esperienze dolorose. Tibi, alla fine, riuscirà ad andare via mentre Tàscia resterà sola, con la consapevolezza di dover vivere, per sempre, nella misera ristrettezza di un mondo chiuso.

Una consapevolezza, questa, ben espressa da Pasquino Crupi che, a tal proposito, evidenziava: “Nelle verdi e sazie campagne del Mezzogiorno gli uomini non ebbero mai età: nacquero adulti. Non esistono fanciulli, ossia esseri umani lontani dalla fatica”.
Ecco perché Tàscia si troverà in piazza, con gli altri ragazzi, ad assistere alla partenza di Tibi. “ Oh come gridava ora la macchina, - si legge alla fine del romanzo – si muoveva, correva, alzava una nuvola di polvere e portava Tibi chi sa dove, chi sa in quale mondo straordinario e tutti rimanevano lì, a guardare, e lei, Tàscia, si sentiva serrare la gola dai singhiozzi, si sentiva la bocca più amara del fiele”.
Come dicevamo prima, dunque, Strati e Dorigo avevano individuato i luoghi per tramutare in immagini questo libro del 1959. La piazzuola dove i ragazzi giocavano con le nocciole doveva essere la stessa immaginata da Strati mentre elaborava la sue pagine: nella “ruga randi” di Sant’Agata, proprio di fronte la sua casa.

Dorigo, poi, aveva visitato il centro storico di Casignana e le “sette fontane” di Caraffa del Bianco per rappresentare, esattamente, i diversi momenti di vita quotidiana. Egli era affascinato dai nostri paesi, tanto che ripeteva: “il futuro è in questi borghi, sono intatti”. Ma non solo. Pure i protagonisti del film dovevano essere del posto. Lo scrittore ed il regista, quindi, si recarono presso la locale scuola elementare per selezionare i giovani attori. Qualcuno ricorda che, per parecchi minuti, lo sguardo di Strati fu come catturato dai disegni degli alunni esposti in una parete. “Qui ci sono dei veri talenti! ”, esclamò quasi ad alta voce. Pochi giorni dopo, l’equipe che doveva occuparsi della realizzazione dell’opera cinematografica rientrò a Roma ma, per delle banali difficoltà finanziarie, la pellicola non venne mai girata.

LE SETTE FONTANE DI CARAFFA DEL BIANCO

Sembrava tutto pronto, ogni cosa era stata valutata con attenzione, ma niente! Il progetto sfumò e non se ne parlò più. Certo, noi da soli potevamo fare ben poco, non eravamo in grado di dare un seguito a quell’idea, di liberarci dalle nostre trappole mentali. E non avevamo nemmeno voglia di preservare le forme di quel mondo passato.
Oggi però, di colpo, ci accorgiamo di aver perso definitivamente il nostro Nuovo Cinema Paradiso. Del paese ammirato da Dorigo non rimane quasi traccia, così come dei due splendidi palazzi nobiliari che poteva vantare la piazza di Sant’Agata.
Ed a ragionarci bene in quella piazza arrivava ogni estate un personaggio molto simile all’Alfredo delineato da Tornatore
Si chiamava Carlo Rossi, attaccava i manifesti colorati con i film che avrebbe proiettato nel suo cinematografo estivo e andava a parlare alla gente con il tono confidenziale e scherzoso che lo caratterizzava. Ma questa è una storia nella storia, che racconteremo un’altra volta, in ritardo come sempre.


Bambini di oggi che giocano come quelli di ieri, proprio nella piazzetta che fu di Tibi e Tàscia.


sabato 21 giugno 2014

La distruzione della grotta di SAN FLORIO (San Gròlio) a CASIGNANA (RC)

Quando i barbari siamo noi!  

Dal mensile IN ASPROMONTE di giugno 2014



Ci sono scenari fermi nel tempo, immagini che ognuno conserva nella mente senza sapere se tuttora esistano oppure no. E’ un fenomeno strano che sottintende la presenza eterna di qualcosa. Ed invece non è così. Poiché, nel momento in cui nulla sembra cambiare, luoghi e memorie si dissolvono o vengono volutamente cancellati. 

E’ il caso della grotta di S.Florio (S. Gròlio nel gergo popolare) a Casignana. Essa si trovava su una collina, dalle pareti ripide, che ancora oggi è denominata con il nome del Santo. Le sue rocce si ergono torreggianti davanti al mare tanto che, da Caraffa del Bianco, si può scorgere una particolare angolazione laddove l’altura si mostra come il rudere di un grande castello di pietra. 
Se invece ci si addentra fra tronchi, spelonche e sassi di ogni misura, quasi adagiate da una mano gigante, non è difficile fantasticare che questo luogo sia stato abitato in epoca primitiva, anche perché le grotte disposte a più piani garantivano un riparo sicuro contro gli animali.
Ma facciamo un passo indietro. Intorno al XI sec. sul versante jonico della provincia di Reggio Calabria oltre ai santi del posto (vedi S. Leo ad Africo) ed al fenomeno del monachesimo italo-greco si registra anche una migrazione di monaci dalla Sicilia. A questo periodo è legata la nascita di vari monasteri (molti distrutti nel corso dei secoli) e le leggendarie vite dei santi anacoreti (eremiti). Tra essi, in un lasso di tempo imprecisato, vi era anche S.Florio che, dall’antica Samo (Precacore), si diresse sulla collina che oggi porta il suo nome. Naturalmente non esistevano ancora i paesi di Casignana, Caraffa e Sant’Agata del Bianco. Qui il Santo condusse vita ascetica vivendo in solitudine in un antro da lui stesso ricavato nella roccia. Se la ricordano in tanti quella specie di stanza, tra i castagni, con due aperture (soprattutto quella perfettamente squadrata). Gli anziani di Casignana rammentano persino che lì solevano nascondersi durante la seconda Guerra Mondiale quando, in lontananza, udivano il rumore degli aerei e, dunque, il preannuncio di un possibile bombardamento. 

Di questo luogo fa menzione Giuseppe Dieni (“Dove nacque Pitagora?”, Frama Sud 1976) che, riportando le Memorie di V. Tedesco, sostiene che il Santo passò “i suoi giorni nella penitenza, e nella vita contemplativa dentro una grotta da lui stesso incavata nel sasso, che tuttora esiste, e ben si conserva”. Ma non solo. Anche Domenico Minuto (Catalogo dei monasteri e dei luoghi di culto tra Reggio e Locri, Storia e Letteratura 1977), Giovanni Musolino (Santi Eremiti italo greci. Grotte e chiese rupestri in Calabria, Rubettino 2002) e Vito Teti (Il senso dei luoghi: memoria e storia dei paesi abbandonati, Donzelli 2004) parlano nei loro testi della grotta di San Florio. Teti, ad esempio, sottolinea che “ nell’attuale territorio del comune di Casignana sono famose le grotte di San Grolio o di San Florio, il cui culto era attestato a Samo, caverne poco profonde scavate in una grande roccia di tufo in prossimità delle quali permangono rovine e una cappella che attestano la permanenza di monaci italo-greci”. 

Ma c’è qualcosa che nessuno ha finora evidenziato, poiché si dà per certo che questo luogo “sacro” esista ancora. E cioè che la grotta di San Florio è stata completamente cancellata dalla faccia della terra, non c’è più. E’ stata distrutta dagli spaccapietre, impunemente. Proprio quella roccia tra centinaia di rocce. E non si capisce bene se tutto ciò sia successo durante i lavori per costruire delle muraglie o le varie case del paese. O forse per l’oscura schizofrenia di qualcuno. Sicuramente ha ragione Salvatore Settis (archeologo e storico dell’arte) quando sostiene che “il paesaggio è il grande malato d’Italia”. Tanto che, in un mix di indifferenza e malcostume, rinneghiamo quotidianamente quella “cultura urbana diffusa che vietava non alla mano, ma al cuore e all’anima di deturpare la bellezza”.

Anzi, la mutazione avviene silenziosa attorno a noi laddove, come dicevo all’inizio, tutto sembra non cambiare. Siamo, difatti, abituati alle devastazioni sensazionali, al saccheggio di predatori esterni che arrivano, senza storia né cultura, e aggrediscono le persone e le loro opere. Ed invece, oggi, non dobbiamo più attendere l’assalto di nessuno perché i barbari siamo noi, con le nostre camicie stirate e le scarpe lucide. Siamo una specie nuova, che ancora i libri non hanno raccontato. Siamo statici spettatori del nostro futuro, ci lamentiamo e non riusciamo a liberarci dalla nostra vecchia rozzezza. Quando non ci vede nessuno normalmente distruggiamo qualcosa. Per di più, amiamo usare espressioni frequenti nei discorsi o negli articoli, come  “eravamo la Magna Grecia” oppure “lo dobbiamo alle nuove generazioni”. Proprio mentre il vuoto si sostituisce ai segni della presenza umana ed un mondo si spegne, inesorabilmente, senza aver dato un senso alle sue cose. 

DOMENICO STRANIERI


Ricostruzione verosimile della grotta distrutta

Le abitazioni di Casignana poste proprio sotto la collina di San Florio

Uno dei muri di Casignana costruiti con le pietre ricavate dalle rocce di San Florio

Francesco Nicita, mio compagno di viaggio alla scoperta di San Florio

Uno dei luoghi più affascinanti della collina di San Florio, quasi una piccola Stonehenge



domenica 8 giugno 2014

UNA LEGGENDA SANTAGATESE (QUASI) SCONOSCIUTA



Questo non è un vero e proprio articolo. E’ una curiosa leggenda che ho trovato in un libro: Guida alla Calabria misteriosa, di Giulio Palange (Rubbettino 2010). Il volume si apre con un’epigrafe filosofica, una bella frase di Heidegger che mi piace riportare: “La nostra identità è la lingua di nostra madre”.



Ma torniamo alla leggenda. Essa è ambientata nel periodo degli scontri tra aragonesi e angioini per il predominio del Regno di Napoli. In questo contesto storico, pare che “ S.Agata del Bianco, schierata con la corona di Spagna, venne assediata da consistenti forze nemiche. I santagatini resistettero a lungo gagliardamente, ma quando i viveri cominciarono a scarseggiare, pensarono di arrendersi; però prima d’alzare bandiera bianca, vollero giocare la carta della furbata: per più giorni raccolsero il latte dal seno di puerpere e balie, e , quando ne ebbero raccolto un bel po’, fecero palle di ricotta con le quali bombardarono l’accampamento nemico”.

Gli angioini, sbigottiti per l’inusuale bersagliamento, pensarono che se “gli assediati si prendevano quel lusso”  potevano anche finire le munizioni ma avevano cibo e bestiame per resistere rinchiusi in paese ancora a lungo. Una resa per fame, dunque, “almeno nell’immediato non era ipotizzabile”.  E siccome gli angioini non volevano stare per anni sotto le mura di quel borgo barricato e superare, quindi, “il record dei greci a Troia”, decisero di levare le tende e andarsene. S.Agata era salva!

Ora, io non so se questa leggenda ha un suo principio di veridicità. A leggere la “Memoria dei luoghi antichi e moderni del circondario” di Vincenzo Tedesco (1856) pare che S.Agata sia stata fondata dopo il terremoto del 1349. L’Europa era contaminata dalla peste nera e la sede del Papato (Clemente VI viene eletto proprio nel 1349) era ad Avignone e non a Roma. 

La fondazione di S.Agata, quindi, è successiva al conflitto tra angioini e aragonesi che si risolse con la pace di Caltabellotta (1302) ma posteriore ai nuovi scontri che si conclusero con l’entrata trionfale a Napoli (1443) di Alfonso il Magnanimo che unificava il Regno di Napoli, e quindi anche la Calabria, al Regno di Sicilia (il cosiddetto Regno delle Due Sicilie)

Una cosa però è certa.

Al di là del periodo storico e dell’attendibilità dell’assedio, per farla franca, solo una mente santagatese poteva escogitare un simile stratagemma.



DOMENICO STRANIERI



venerdì 23 maggio 2014

I FATTI DI CASIGNANA ED UNA VECCHIA BANDIERA SOCIALISTA

LA BANDIERA DI MIO PADRE
(Dal mensile IN ASPROMONTE di maggio 2014)


Addio ad Antonio Micchia, figlio del vice-sindaco ucciso nella strage di Casignana. 
Tutta la vita segnata da una vecchia bandiera socialista!



La copertina del num. di maggio del mensile IN ASPROMONTE
Il  23 aprile a Casignana si sono svolte delle onoranze funebri apparentemente normali, se si esclude il toccante ricordo, dopo il rito religioso, pronunciato dall’intellettuale Giuseppe Aprile. Non vi era, difatti, un’eccezionale presenza di persone e per molti giovani era morto solo un anziano maestro che aveva insegnato quasi una vita presso le locali scuole elementari.
Eppure vi sono memorie e simboli che diversificano questo singolare insegnante che si muoveva senza alcuna fretta, per le vie del paese, a bordo della sua Fiat Seicento azzurra.  Sopra la sua bara erano posti dei garofani rossi avvolti da una vecchia bandiera, anch’essa rossa, dove era facilmente riconoscibile il simbolo del Partito Socialista. L’uomo in questione era Antonio Micchia, figlio di Pasquale Micchia (vice-sindaco di Casignana negli anni ’20), che, come scrisse Gaetano Cingari, ha vissuto “nel culto dell’ideale del padre” (tanto che anch’egli si farà chiamare per sempre Pasqualino, in suo onore).

Ma per capire meglio di chi stiamo parlando bisogna tornare indietro nel tempo, esattamente al 4 ottobre 1922. In questa data, difatti, a Casignana era giunto Giuseppe Bottai (fascista di primo piano che parteciperà alla Marcia su Roma, sarà Deputato e Ministro dell’Educazione Nazionale nonché Fondatore della rivista Critica Fascista e condirettore del quindicinale Primato). Ufficialmente era a Casignana per inaugurare la sede del Fascio locale ma in realtà egli era preoccupato per quello che era successo in paese quattordici giorni prima. Ma cosa era accaduto il 21 settembre del 1922? Quel giorno Pasquale Micchia, il padre di Antonio (che all’epoca dei fatti aveva meno di quattro mesi, poiché era nato il 28 maggio del 1922), guidava per la stradella delle Croci, insieme al sindaco Giuseppe Ceravolo, un gruppo di braccianti diretti verso la foresta Callistro.  

L'articolo sul cartaceo
Dopo il primo conflitto mondiale, difatti, anche in Calabria (che contava 20.000 soldati caduti al fronte) si poneva il problema della “terra ai contadini”, la cui manodopera veniva sistematicamente sfruttata dagli agrari. Era il proseguimento di una complessa questione sociale che Pasquale Villari aveva evidenziato nelle sue Lettere Meridionali fin dal 1875. Osservando oggi molte campagne abbandonate non è facile concepire come le stesse terre, in passato, rappresentassero il sogno e la speranza di una vita migliore per tanti lavoratori che, dopo la Grande guerra, in un clima da “scisma”, erano pronti a lottare per esse. Già nell’ottobre del 1919, difatti, il Prefetto di Reggio Calabria, Igino Coffari, segnalava che nel Circondario di Gerace, fomentato dal Partito Socialista, si era organizzato un movimento di contadini che avevano occupato alcune terre nei comuni di Caraffa, Sant’Agata del Bianco, Ferruzzano e Bruzzano.
La foresta Callistro
Anche perché il 2 settembre del 1919 il Governo Nitti, con il decreto Visocchi, tendeva a favorire gli ex combattenti tramite l’assegnazione di terre incolte ad “associazioni agrarie od enti, legalmente costituiti”. A Casignana, quindi, nacque la Cooperativa “Garibaldi”, presieduta da Giuseppe Naim, che avanzò subito richiesta di assegnazione della foresta Callistro (feudo della famiglia Carafa di Roccella). Con decreto e successiva integrazione ad esso, il prefetto di Reggio, Alfredo Ferrara, concesse l’autorizzazione per l’occupazione quadriennale del terreno. Sembrava aprirsi uno spiraglio di libertà, la possibilità di conseguire progressi economici ed avviare delle leggi sociali.

Negli anni, difatti, Pasquale Micchia aveva annotato in un “libro bianco” (di cui pare esistano ancora tre copie) le dolorose condizioni dei lavoratori di Casignana, sempre subordinati, come in tutti i paesi, allo strapotere di questa o quella famiglia. Tuttavia il 10 settembre, il Prefetto, accogliendo un’istanza presentata dai Carafa e rifacendosi al decreto Falcioni (che imponeva notevoli limitazioni e la creazione di una commissione provinciale per l’esame delle domande di occupazione), firmava un’ordinanza di scioglimento della Cooperativa di Casignana. Il 21 settembre il provvedimento, che includeva anche un’immediata esecuzione, veniva notificato dal Vice-Commissario Edmondo Rossi scortato da venti carabinieri.

La stradella delle Croci,
dove avvenne l'eccidio

Tutto tornava come prima. I rappresentanti dei Carafa potevano riprendersi la foresta Callistro e i contadini non disponevano più di nessun mezzo per sottrarsi al loro destino di miseria. Ecco perché il sindaco ed il vice-sindaco di Casignana, quel 21 settembre 1922, guidavano (al posto di Giuseppe Naim, recatosi a Reggio per parlare con il Prefetto) i braccianti della Cooperativa “Garibaldi” diretti verso la foresta Callistro, determinati a ribellarsi contro un provvedimento che consideravano oppressivo e  ingiusto.

Per questi motivi, e forse anche per altri, nella stradella delle Croci, avvenne la cosiddetta “strage di Casignana”. Secondo Ferdinando Cordova (rivista Historica, 1965) il primo colpo fu quello del “guardiano di casa Roccella, Di Giorgio Bruno, l’unico che portasse il fucile”, il quale “prese di mira e ferì gravemente il sindaco dott. Ceravolo Giuseppe”. Subito dopo, i carabinieri esplosero 101 colpi, "ma ad essi vanno aggiunti quelli sparati dagli avversari della Cooperativa, fra cui numerosi i fascisti”. Nell’aggressione persero la vita Pasquale Micchia, Girolamo Panetta e Rosario Micò. Oltre al sindaco Ceravolo (che rimarrà claudicante per tutta la vita) rimasero feriti Rocco Mollace, Natalino Russo, Rocco Umbrello, Giulio Scappatura e Rosario Domenico Di Gori. Più di ottanta persone, invece, riportarono conseguenze meno gravi.

Il feretro di Micchia avvolto
dalla vecchia bandiera del padre

Secondo Gaetano Cingari: “La propaganda socialista si faceva più capillare e più efficace, e a Casignana e in tutte le terre di quel comprensorio ionico giovani intellettuali e professionisti abbracciavano l’ideale socialista e la battaglia dei contadini”. Ecco perché Giuseppe Bottai, dopo l’eccidio, si recò personalmente a Casignana. Era preoccupato per la nascita di una nuova classe dirigente in grado di liberare i contadini dal predominio dei proprietari terrieri e, dunque, di ottenere un ampio consenso. Quando il gerarca fascista lasciò Casignana per andare alla stazione ferroviaria di Bianco qualcuno, nascosto dietro le rocce, esplose due colpi di rivoltella, uno dei quali ferì all’avambraccio sinistro un giovane fascista. 

Quasi immediatamente molti pensarono ad un finto attentato, ma l’episodio venne usato come pretesto per danneggiare la casa di Giuseppe Naim, presidente della Cooperativa Garibaldi.
Pasquale Micchia era già morto da due settimane. Aveva 30 anni mentre percorreva il passo delle Croci (“e non si sarebbe più allontanato dal suo popolo“ scrisse Mario La Cava nel libro I fatti di Casignana, Einaudi 1974). Poco tempo dopo anche qualche suo compagno aderì al Fascismo. Il figlio Antonio, invece, rimase Socialista per tutta la vita e ogni primo maggio soleva fissare la sua bandiera, appartenuta al padre, sul balcone della propria abitazione. Ma con la sua scomparsa nessuna vecchia bandiera troverà più spazio nel cielo di Casignana, di quelle che rievocano ideali e passioni e per le quali un tempo si poteva pure morire. Tanto simili a Le belle bandiere descritte da Pasolini in una poesia: “a sventolare una sull’altra, in una folla di tela povera, rosseggiante,…. nella tenerezza eroica d’un’ immortale stagione”.


DOMENICO STRANIERI




ARTICOLI CORRELATI: QUALE SOCIALISMO?

FOTO

Le foto sul cartaceo

Il prof. Pasquino Crupi (autore di numerosi articoli sull'eccidio in questione) a Casignana, il 21 settembre del 1972, in occasione del Cinquantenario della strage. Pasquale Micchia è alla sua destra con la moglie Marina Naim. Tra gli altri, oltre agli ex combattenti della "Garibaldi" Di Gori e Giovinazzo, presenti alla manifestazione anche l'On. Giacomo Mancini ed il Presidente della Regione Calabria Antonio Guarasci.

L'arrivo dell'On. Giacomo Mancini a Casignana nel 1972

Una vecchia tessera di Antonio Micchia

Da destra, Antonio Micchia, Rosario D. Di Gori ed il figlio Domenico a Roma

Sede del partito Socialista a Casignana. Micchia (al centro) è con 
gli ex combattenti della "Cooperativa Garibaldi" Di Gori e Giovinazzo

A. Micchia (il secondo partendo da destra)
al 37° Congresso Nazionale del Partito Socialista

Antonio Micchia (il primo a destra) a Roma 
in compagnia di Pietro Nenni





mercoledì 23 aprile 2014

LA LEGGENDA DELLA ROCCIA DI "GIULIA SCHIAVA"

Una scritta enigmatica, una morte misteriosa ed il segreto del tesoro dei briganti

Dal mensile In Aspromonte di aprile 2014


Nella prefazione del suo libro “Storia delle terre e dei luoghi leggendari “ (Bompiani, 2013) , Umberto Eco scrive che “le terre ed i luoghi leggendari sono di vario genere e hanno in comune solo una caratteristica: sia che dipendano da leggende antichissime la cui origine si perde nella notte dei tempi, sia che siano effetto di una invenzione moderna, essi hanno creato dei flussi di credenze”.
Sicuramente Eco ha ragione, principalmente per quanto riguarda le grandi utopie e le grandi narrazioni. In Calabria, invece, si vive il doppio pericolo della perdita definitiva della cultura orale (e della fantasia collettiva di un popolo) e dell’alterazione o cancellazione delle terre e dei luoghi leggendari (soprattutto quelli meno noti ma non meno affascinanti).
Qualcosa, però, si può ancora recuperare. Come la storia di un tesoro e di briganti misteriosi (tanto che non conosciamo il nome di nessun bandito) e l’epica figura di una schiava: Giulia. Ovvero una leggenda che ruota intorno ad una roccia e all’enigma di una scritta incisa su di essa.
La roccia in questione si trova in contrada “Ferrubara”, nel comune di Caraffa del Bianco (a pochi metri da due splendidi palmenti scavati nella pietra) nella terra di Francesco Minnici, un giovane che ricorda come suo nonno tramandò questo racconto a suo padre (che era anche poeta dialettale) e quest’ultimo, a sua volta, sul filo della memoria, a lui.
La leggenda di “Giulia schiava”, quindi, si trasmette oralmente da diverse generazioni. Anche perché noi calabresi, oltre all’amore per i racconti, nutriamo pure una singolare attrazione per i briganti.

Così, ho iniziato a sentire gli anziani di Caraffa del Bianco per capire cosa è rimasto di questa storia. I ricordi delle prime persone che ho ascoltato erano confusi, ma tutti rammentavano la tenacia di ricercatori che di notte scavavano nella speranza di trovare un tesoro e di avere una rivincita sulla miseria. Di Giulia, poi, si sa soltanto che era la schiava dei briganti (alcuni, però, mi specificano che era un’ancella romana) morta e seppellita accanto ad una roccia. Ecco perché da tempo immemorabile quella è “la roccia di Giulia schiava”.

La roccia

Francesco Minnici, però, mi indica un’anziana che conosce meglio degli altri questa leggenda. Si chiama Giulia Di Paola ed è lucida e assennata. Ecco cosa ricorda: <<Noi andavamo sempre a raccogliere le olive in quella zona, anche perché lì c’è la nostra terra. Io dormivo con mia nonna la quale, una notte, ha sognato una donna bellissima che diceva di essere la schiava dei briganti e di essere stata assassinata perché il suo spirito sorvegliasse un tesoro. Sempre nel sogno, la donna, che diceva di chiamarsi Giulia, fece vedere a mia nonna un tinello pieno di marenghi d’oro sulle quali era posizionata una croce d’argento.
“Se tu verrai  a mezzanotte, con la luna piena, su questa roccia - continuò la donna del sogno - e porterai il tuo bambino, allora spunterà un animale che senza fargli del male lo lambirà. Dopodiché ti indicherà il punto esatto dove si trova il tesoro”. La mattina seguente mia nonna raccontò il sogno al marito, che aveva studiato in un collegio ecclesiastico ed era un uomo colto. Mio nonno si arrabbiò dicendo: “Non capisci che quella donna ti ha chiesto in sacrificio la vita del bambino? Non capisci che vuole un altro spirito che custodisca il tesoro al suo posto per potersi liberare dalla sua condanna eterna?”. La mia povera nonna inorridì; per nessuna ricchezza al mondo avrebbe barattato la vita del suo bambino. Per qualche tempo ella sognò ancora quella schiava che, però, non le disse più nulla. Fintanto, quando si trovava in campagna, non smise di percepire altri strani segni. Un giorno, ad esempio, vide delle monete per terra, ma non le raccolse”.
Le stesse visioni della nonna della signora Di Paola, come ad esempio quella del passaggio nei pressi della roccia di una gallina con i pulcini d’oro, mi vengono confermate da altre persone che aggiungono: “C’è qualcosa di incomprensibile in quel posto, perché proprio lì gente ingenua e senza pregiudizi ravvisa da sempre cose assurde? “.

Tuttavia, in un primo momento, l’iscrizione enigmatica di cui tutti parlavano sembrava scomparsa. Ma grazie alla pazienza di un padre e un figlio (Vincenzo e Stefano Bagnato) che hanno ripulito il blocco di pietra dal muschio che lo copriva, è riaffiorato quel che rimane di essa. I caratteri sono alti una decina di centimetri, la lunghezza è poco più di un metro e, da subito, si distingueva una lettera che somigliava a una “c”.
Qualche giorno dopo, assieme a Francesco Minnici, mi sono recato a perfezionare il lavoro di pulizia della roccia e, dopo averla inumidita, non è stato difficile capire cosa vi è impresso. Difatti, la parola in questione, che verosimilmente risultava priva di significato agli occhi dei contadini, è: “Scipio*.
Potrebbe trattarsi del nominativo latino di Scipione l’Africano, ma non è facile chiarire il nesso che c’è tra il riferimento ad un condottiero romano e l’individuazione di un tesoro. Di certo è stato emozionante ritrovare dei segni che rimandano a un tempo lontano.

Ma al di là di tutto, ed in attesa di far visionare la scritta ad un esperto, è necessario chiedersi cosa c’è dietro la coscienza del nostro immaginario, cioè che valenza antropologica hanno tali leggende, quando hanno avuto origine e come sono state trasfigurate. E poi, quanto si è perso dei racconti orali e cosa non è ancora scomparso del tutto (anche nelle presenze più minute della natura).
Poiché noi calabresi, che amiamo ripetere di continuo che “fummo la Magna Grecia”, oltre a “spersonalizzare” il paesaggio reale, rischiamo di non conservare più nemmeno i paesaggi della nostra fantasia e della nostra cultura.
DOMENICO STRANIERI

* Insieme a me e Francesco Minnici c'era anche Giovanni Minnici, un giovane escursionista di Sant'Agata del Bianco. E' stato proprio Giovanni a decifrare per primo la scritta SCIPIO.

La signora GIULIA DI PAOLA

I segni della scritta 
(prima di essere ripulita completamente e decifrata)


I palmenti in prossimità della roccia di "Giulia Schiava"

N.B. Secondo uno studio del prof. ORLANDO SCULLI,
nel circondario di Ferruzzano, Bruzzano, Sant'Agata,
Caraffa del Bianco e Casignana si contano circa 700 palmenti





Vincenzo e Stefano Bagnato

Francesco Minnici



Giovanni Minnici, il primo a decifrare l'incisione della roccia
(In questa foto è accanto ad un palmento di Casignana)

Dopo aver ripulito ed inumidito la scritta, la parola SCIPIO risulta chiara.



..E SE QUELLA DI GIULIA FOSSE UNA FIGURA RELIGIOSA?

Dopo aver scritto questo pezzo mi sono chiesto: "siccome le prime Sante della cristianità erano quasi tutte delle schiave, questa leggenda può essere la trasfigurazione di una storia cristiana"?
Così ho pensato di trovare e leggere la vita di Santa Giulia. E, come spesso accade, le cose scontate possono rivelarsi anche le più sorprendenti. Difatti ho subito riscontrato delle attinenze tra la leggenda di “Giulia Schiava” e la vita di Santa Giulia. Ecco in breve quali sono tali somiglianze:


1)  Naturalmente Santa Giulia era una schiava (una storia, la sua, le cui recensioni più antiche risalgono al VII secolo d.C. anche se, nel sermone IN NATALE CATULINI, già Sant'Agostino venerava le reliquie di una Giulia insieme a quelle di altri martiri)

2) Santa Giulia era di Cartagine cioè la città conquistata da Scipione (anzi da due Scipioni, Africano ed Emiliano)…quindi la scritta SCIPIO ha un senso se considerata in questa prospettiva.

3) Santa Giulia divenne la schiava di un certo Eusebio (un mercante siriano - palestinese) e viaggiava in una nave piena di beni preziosi.

4)  Santa Giulia fu flagellata per ordine del magistrato romano Felice Sassone perchè accusata di irridere gli dei.

5)  Secondo Alfredo Cattabiani (autore del libro “Santi D’Italia”, BUR edizione digitale 2013) nel 439 d.C., quando i Vandali invasero l’Africa distruggendo Cartagine, molti cristiani perseguitati dalla popolazione barbarica (che era ariana) fuggirono attraversando il mare e portando con loro, in altre terre, le reliquie e la memoria di Santa Giulia.

I resti de "I Molinelli"

6) Nella zona della roccia di Giulia Schiava pare che anticamente ci fosse un Convento. In un apprezzo (un atto notarile) del 1707 (tradotto da Domenico Romeo e pubblicato da AGE nel 2009)  si legge, difatti, che presso i ruderi de i Molinelli “si veggono  li vestigi  d’una chiesa, ed altro edificio, che dissero stato anticamente  convento de’ P.P. Domenicani, e poco distanti si vede una fontana denominata di Calano di buona qualità e forse delle migliori…e poco di lungi si trova una cappella coverta a tetti, dove si venera l’Immagine di Nostra Signora sotto il titolo delle Grazie”. Se si considera che più a valle si trovava anche il convento di Contrada Crocefisso, si può dedurre come in questa zona ci fosse una forte presenza religiosa.

7) Ci sono diverse versioni, tuttavia, riguardo la vita di questa Santa cartaginese: per alcuni studiosi, ad esempio, ella morì durante la persecuzione di Diocleziano (che iniziarono nel 303 d.C. quando l'ammirazione dei pagani per la nuova religione era considerata pericolosa per l'Impero) e le sue reliquie furono trafugate dopo l’arrivo dei Vandali (439 d.C.). Pare, comunque, che durante l’invasione dei barbari, molti cartaginesi giunsero in Corsica, dove oggi Santa Giulia è la patrona dell’isola. Sempre in Corsica raccontano che, una volta flagellata, i resti della Santa schiava furono seppelliti sotto una roccia.