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sabato 12 settembre 2020

QUALE SOCIALISMO?

Dal dibattito sul giornale online LENTE LOCALE

Nel 1976 Norberto Bobbio pubblicava (Ed. Einaudi) un libro dal titolo: “Quale socialismo?”. Oltre al dibattito che si aprì sul binomio “socialismo – democrazia” (con Roberto Guiducci, Domenico Settembrini, Claudio Signorile ed altri), nella parte finale del testo, Bobbio si chiedeva (con quella sua tendenza a non raccogliere certezze ma a seminare dubbi) se “siamo proprio sicuri d’intendere  <<socialismo>> tutti quanti nello stesso modo”.

Ultimamente, sul giornale online Lente Locale, si stanno susseguendo una serie di riflessioni che riprendono il tema del socialismo italiano e del “vuoto” lasciato dallo sfascio del PSI.

Credo che sia una questione molto complessa ma provo ugualmente a dare il mio contributo al dibattito.

Rischierei di essere troppo ripetitivo ricordando il grande valore dell’ideale socialista, le conquiste sociali e politiche, e la modernità del pensiero riformista (in Calabria basta leggere qualche articolo di Sisinio Zito) in anni in cui altri partiti guardavano al futuro (quando lo facevano) con occhi adulterati da notevoli limiti.

Di certo è impossibile non menzionare Mani Pulite, ovvero un processo che nulla aveva di “storico” ma che sembrava orientato ad eliminare i dirigenti di alcuni tra i più grandi partiti italiani, in una nazione che, tra l’altro, non aveva una classe politica di ricambio.

Non per niente nel 2011, durante la presentazione di un libro, Francesco Saverio Borrelli, capo del pool Mani Pulite, disse: “Se fossi un uomo pubblico di qualche Paese asiatico, dove come in Giappone è costume chiedere scusa per i propri sbagli, vi chiederei scusa: scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all'aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale».

Così, oggi, a forza di finte campagne moralistiche, ci ritroviamo con una corruzione maggiore, con delle figure istituzionali inventate al momento ed un populismo che si scontra con altro populismo (in una specie di gara a chi la spara più grossa).

 

    Nenni e Pertini

Ma quando un partito scompare, la colpa non è solo degli altri. Credo che bisogna dirselo con franchezza reciproca. Ovvero: dopo l’ignobile “persecuzione” che si era venuta a creare, quasi tutti i politici “sopravvissuti” erano più preoccupati a riposizionarsi in altre aree che a “restituire l’onore ai socialisti” (per dirla con Claudio Martelli).

Insomma, la nave è affondata anche perché dopo la tempesta tutti l’hanno abbandonata seguendo il motto: “si salvi chi può!”.

In tutto questo, un ruolo decisivo lo ebbe Giuliano Amato che, ad inizio novembre 1992, fu indicato da Craxi quale suo successore. Amato, che da Presidente del Consiglio viveva mesi caratterizzati da enormi difficoltà, rifiutò tale investitura, ed il Partito, ormai lacerato anche nei rapporti personali e senza un vero leader, si frantumò. 

Ricordo che nel 2005, da giornalista alle prime armi, curai per qualche tempo una rubrica nella quale intervistavo ogni settimana un esponente del Nuovo PSI (i socialisti posizionati a destra) ed uno dello SDI (i socialisti di sinistra). La cosiddetta “base” era convinta che fosse necessaria una riunificazione delle anime socialiste ponendo fine ad un’anomalia che esisteva solo in Italia. Ma, nei fatti, l’unità non allettava né Boselli (che nel 2006 diventerà deputato del partito “La Rosa nel pugno”) né De Michelis (restio a lasciare “La Casa della Libertà”), ciascuno attento a preservare la propria posizione di segretario dei due mini-partiti (che in Calabria, regione con una importante tradizione socialista, riuscivano ancora ad eleggere consiglieri regionali, deputati e senatori).

Addirittura, dopo il Congresso del Nuovo PSI, svoltosi a Roma nel 2005, si formarono altri due raggruppamenti: “Rifondazione Socialista” con segretario Giuseppe Graziani e “I Socialisti” con segretario Bobo Craxi (che intanto era passato a sinistra diventando sottosegretario con il governo Prodi).

Diversi nomi e fragili tentativi di un’improbabile unificazione si avvicendarono almeno fino alle regionali 2010, anno in cui i “Socialisti Uniti” conclusero accordi sia a destra che a sinistra.

Ma al di là dei soliti giochi di potere, forse nel 2005 si perse un’opportunità, o forse l’unità era ugualmente destinata a fallire, all’interno di una coalizione di sinistra che considerava “l’aggettivo socialista impronunciabile” .

Oggi, la globalizzazione ha creato una sorta di riconfigurazione della politica planetaria che, però, non ha risolto il divario tra paesi poveri e paesi ricchi. Tuttavia, mentre in passato i grandi movimenti di lotta contro le condizioni sociali imposte dal capitalismo erano alimentati da un pensiero, spesso da un’utopia, che rappresentava un futuro da costruire, oggi, soprattutto in Italia, si sa cosa non si vuole ma è quasi impossibile ragionare su come migliorare l’esistente.

Ecco perché la domanda iniziale di Bobbio torna qui, alla fine della mia riflessione: Quale socialismo? A quale tipo di mondo aspiriamo? 

Sicuramente, ancora oggi, esistono gli oppressi, le disuguaglianze, e il senso del diritto è calpestato dall’ingiustizia. All’interno di un simile scenario, reso più tragico dalla catastrofe ecologica, sarebbe naturale l’esistenza di un partito socialista italiano capace di diventare nuovamente “sperimentalismo storico”, magari partendo dal basso, dalle comunità locali, e dall’eredità di un patrimonio ideale che non ha perso la sua modernità.

Servirebbe, però, una fortissima volontà politica, capace di superare il male derivante dal frazionismo correntizio e dalle nuove forme di “feticismo” (vedi analisi di Marx nel Capitale) imposte dalla tecnologia e dai grandi imperi economici, che provano a trasformare i rapporti sociali, privati di sogni e visioni, in “rapporti sociali tra cose” (trascurando l’ampliamento dei confini della libertà sociale).

Cosa resterà, altrimenti, dei socialisti è difficile dirlo. La speranza è quella di non ritrovarsi a vivere in un mondo simile a quello descritto nel 1908 da Jack London ne “Il Tallone di Ferro”, ovvero una società dominata dalla logica del profitto e governata da un opprimente sistema oligarchico. Anche perché nessun Ernest Everhard (il coraggioso rivoluzionario protagonista del romanzo di London che inspirò al padre di Ernesto Che Guevara il nome del figlio) si intravede tra gli uomini del prossimo futuro.                    

                                                                                                       DOMENICO STRANIERI


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