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sabato 21 novembre 2015

LA REGALÍA DI EPOCA MODERNA

Dal mensile IN ASPROMONTE di Novembre 2015


Al sud c'è sempre uno scarto tra ciò che potevamo essere e ciò che siamo diventati. Il resto è un eterno ritorno di discorsi, analisi (laddove chi invoca la "sinergia" tra territori la intende pilotata dal suo territorio e dalla sua testa) e "pensieri ciechi" (magari formulati dai "nordisti").

Così capita che uno scrittore come Saverio Strati, che non riusciva più a pubblicare i suoi libri perché ritenuti “superati”, riesca ancora a dirci molte cose. Le angosce di chi doveva partire ieri, ad esempio, ed aveva “due cuori” (uno che diceva “vai!” e l’altro “che vai a fare?”), sono gli stessi tormenti di oggi.


E poi c’è la regalía di epoca moderna. Quasi l'obbligo a svolgere gratuitamente un’attività per un “signorotto locale” sperando che questi, in futuro, si ricordi del lavoro fatto o, semplicemente, per non inimicarselo rifiutando di “essere a disposizione”.

Succede ancora in tante realtà. La differenza con il passato è quella che non si va esclusivamente nei campi a zappare, come facevano i personaggi di Strati, ma il concetto non cambia.

L’autore di Sant’Agata del Bianco scrisse il racconto La regalía nel 1953 e lo dedicò «Alla memoria di Elio Vittorini». Protagonisti: un padre con una gamba rotta, impossibilitato a muoversi e a lavorare, ed un figlio che mal sopportava di avere “la camicia lorda di terra e di sudore”, senza paga, per ingraziarsi il potente “cavaliere” di turno.

Non me la sentivo di parlare, con la stanchezza che avevo; perché davvero da più di un mese andavo ad annaspare nelle vigne; e annaspavo come un dannato, dato che ogni padrone ti scorticava, durante quelle giornate che ti aveva. Ma quei rimproveri di mio padre davvero mi facevano male.

Per le sue idee, il padre considerava il giovane uno sprovveduto, un sognatore che non aveva percezione di come andava il mondo.

Tu parli col cuore di chi non ha responsabilità. Se non vai, che puoi fare più in paese? Che, forse puoi andare a chiedergli olive? E, se lui non ti dà le olive, con che ti condisci le mani? E un pugno di grano dove lo semini? Che, forse hai un pezzo di terra da zappare? Non vedi che noi non abbiamo neppure dove scavarci la fossa? Ragioni con la testa o con i piedi?.

Ma il figlio ribatteva: “Sentitevi onorato di andare a fare il servo (..) È la più grossa fesseria, questa della regalía. Noi dobbiamo regalare, noi che siamo poveri? E lui cosa ci regala?”.

Insomma, dove non c’è l'autonomia di scegliere un lavoro non può esserci libertà. Tuttavia, è evidente che: “Se la gente non va a raccogliergli le olive, lui (il padrone) non manda sua moglie a stare a culo a ponte sotto gli olivi; né va lui a dare tre palmi con la zappa, nei campi e nelle vigne. Lui è, perché lo facciamo noi essere”.

Ecco, i potenti, gli sfruttatori, i mafiosi “sono” perché li facciamo noi "essere". E con il sudore dei poveri saranno sempre loro i protagonisti della storia. Quella storia che non ricorderà mai i nomi dei nostri nonni e dei nostri padri, le loro fatiche.

E non rammenterà nemmeno le nostre abbozzate "prove di esistenza”. Poiché siamo figli di una debole mitologia contadina, di un fatalismo che ci esorta ad accontentarci di poco. Quasi che avessimo ancora addosso gli “spiriti della distruzione” ed i travestimenti delle antiche tragedie greche.


DOMENICO STRANIERI


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