Sant'Agata, Caraffa del Bianco e la realtà ancestrale di Capo Bruzzano (Zefirio)
Dal mensile IN ASPROMONTE di Settembre 2014
Capo Bruzzano visto dalle logge |
Un mio amico mi ha
sconsigliato di pubblicare un pezzo riguardante le logge di Capo Bruzzano, ovvero quelle
costruzioni di legno e felci realizzate sulla spiaggia, d’estate. Il problema,
sempre secondo il mio amico, consiste nell’impossibilità di rievocare
attraverso la scrittura profumi, rumori ed emozioni di chi ha vissuto
l’esperienza di “accamparsi al mare” negli anni ’60. Sicuramente ha
ragione. Eviterò, quindi, di inseguire le parole giuste per riattivare
l’olfatto e l’udito e proverò a concepire, con esse, unicamente delle scene.
Cerchiamo, per prima
cosa, di immaginare come si spostavano uomini, donne e bambini su quella
rientranza della costa difesa a ponente da un promontorio (“u Capu”), dove
soffia la brezza dello Zèfiro che,
come diceva Petrarca, “torna, e
’l bel tempo rimena”.
Da luglio ad agosto,
alcune famiglie di Sant’Agata e
buona parte di quelle di Caraffa
del Bianco si trasferivano a fianco della scogliera di Capo Bruzzano (un tempo Capo
Zefirio) nella zona in cui, secondo Strabone,
sbarcarono i Locresi (VII
sec. a.C) e vi abitarono per tre o quattro anni accampandosi vicino a una
fonte chiamata “Locria”.
Probabilmente in
maniera non dissimile dagli antichi greci, santagatesi e caraffesi congegnavano
delle dimore, le logge, messe in piedi con quattro pilasti di legno (le forche)
e rifinite con pareti e tetti di canne e felci.
Tali strutture, che da
lontano si presentavano come un allineamento di carrozzoni fermi, avevano due
porte: una rivolta verso il mare ed una retrostante, verso i rilievi di terra
bianca. Più lunghe delle porte erano le “pezzare” appese ad esse, le cui
estremità, di notte, venivano riempite di sabbia per mantenere chiuso
l’ingresso contro possibili raffiche di vento. L’insidia tangibile,
chiaramente, era il pericolo degli incendi (rimane ancora vivo nei ricordi
quello del 1967).
Tuttavia, si stava
sempre dinanzi alla riva, in un’essenzialità ancestrale senza tempo, con i
“vicini di ruga” che venivano sostituiti dai “vicini di loggia” (chiunque,
difatti, ogni anno preservava il suo posto). Era come rifugiarsi dal grande
mondo, che dalla collina si abbracciava facilmente con lo sguardo, nel piccolo
mondo di un’insenatura marina, fatto di rocce, sabbia rovente ed un continuo
contatto con l’acqua salata. Alla fine, inevitabilmente, giochi, acrobazie,
corse, volti e sorrisi diventavano parte del paesaggio, di un nuovo habitat
capace di soddisfare le necessità dell’epoca.
Ci si avvaleva della
battigia, ad esempio, come luogo refrigerante (soprattutto per mantenere
piacevolmente fresche le angurie) o si saliva su un’altura per dissetarsi
presso una sorgente naturale (la “Locria” dei greci?).
Famiglia di Caraffa del Bianco. I due bambini sono Enzo e Saverino Bartolo |
Qualcuno, addirittura,
portava con sé, in spiaggia, gli animali (galline, maiali, pecore e
asini) senza, però, abbandonare in nessun momento le campagne. Da Capo
Bruzzano, infatti, prima della comparsa del sole, gli uomini si recavano nei
propri terreni come pazienti viandanti.
Per fare la spesa,
invece, si camminava fino ad Africo
Nuovo che, giusto nei primi anni ’60, stava prendendo forma sul
litorale (dopo la terribile alluvione del 1951 che produsse
conseguenze devastanti per il Comune situato in montagna).
Ma per quale ragione ci
si allontanava per due mesi dai centri abitati? Innanzitutto perché soltanto
due o tre famiglie, in paese, possedevano un’automobile. Oltre a ciò, la
permanenza al mare era raccomandata dai medici per prevenire o curare vari
malanni. L’acqua dello Jonio, in effetti, era limpidissima. Se ne servivano i
pastori, per fare la ricotta, e veniva adoperata persino come purificante
naturale per naso e gola.
Inutile precisare che
non esistevano i servizi igienici. Ognuno si riparava o sotto un ponte (le
donne sempre con una “sentinella” al seguito) o dietro una pianta erbacea.
Pochissimi disponevano di una latrina ricavata nella sabbia e circoscritta
dentro una capanna.
Un’altra caratteristica
del posto erano (e sono) delle rocce scavate dai flutti e dal tempo, delle vere
e proprie piscine, i “cardarelli”, dove i più piccoli amavano fare il bagno.
Diversamente, i ragazzi maturi erano sempre in competizione per stabilire chi
aveva eseguito il tuffo più spettacolare da una rupe denominata “Salto della
vecchia” (alta una quindicina di metri). Nei paraggi, inoltre, si intravedevano
scogli particolari nei quali non era difficile riconoscere fattezze di
astronavi, cammelli o dinosauri. Un po’ come si vagheggia con i lineamenti
delle nuvole.
Appena sopraggiungeva
l’ombra della sera si degustavano formaggi, olive, salami, peperoni alla brace
e quanto di buono offriva la nostra tradizione gastronomia. E non mancava il
pesce che, solitamente, i contadini barattavano con l’olio d’oliva.
Subito dopo, per
svagarsi o discutere, ci si raggruppava di fronte al mare, scuro come una
realtà inconoscibile. E attorno agli anziani, che somigliavano a vecchi
cantori, si ritrovavano in tanti pronti a cogliere, nelle loro storie, degli
insegnamenti di vita.
Solo a fine agosto si
scorgevano le prime persone che iniziavano a disfare la loggia per rincasare in
collina. Così, i bambini si appropriavano dello spazio vuoto, e delle fronde
rimaste, per costruire la loro piccola fortezza. Si sentivano grandi e indipendenti
quando si svegliavano conquistati dalla luce dell’alba che, improvvisa,
filtrava tra i rami delle felci. E forse, per loro, nessuno schermo in HD varrà
mai la bellezza di quella luce.
Malgrado ciò, qualche
giovane aveva fretta di rientrare in paese. I mitici Don Ciccillo e Don
Carlo Rossi, di Sant’Agata, avevano organizzato una sala giochi con
delle novità straordinarie: biliardo e calcio balilla. E agli inizi
degli anni ’70 arrivarono anche i flipper.
Pertanto, passare dai
giochi semplici della spiaggia al lampeggiare dei flipper era, per molti, quasi
come viaggiare nello spazio.
Eppure, alla fine, è
sempre la suggestione poetica che vince. Di quel periodo, infatti, ciascuno
descrive la medesima sensazione, tenendo gli occhi socchiusi, in modo magico.
Ovvero quella di assopirsi restando tutta la notte con il sonno legato al ritmo
delle onde. Ma questo, come dice il mio amico, è impossibile descriverlo con le
parole.
DOMENICO STRANIERI
Famiglia di Caraffa davanti alla propria loggia (Anni '60). Al centro Angela Condemi con la mamma Rosina e la zia Ida. |
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